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versione telematica del quadrimestrale di scrittura e critica diretto da Edoardo Sanguineti e Nadia Cavalera
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Una brutta storia

Umberto Lacatena

02/09/2002


Su certe cose ho le mie idee; sui ricordi, per esempio. I ricordi sono sogni dimenticati. Perciò è inutile che mi chiediate, neppure a tavola dopo un pranzo sontuoso, se ciò che sto per raccontarvi sia successo davvero. So che d'un tratto mi ritrovai a pensare che stavo per schiantarmi contro il guardrail. I Tir procedevano come elefanti tenendosi per la proboscide di gas colorati.

Il mio problema è che non so stare fermo; con la mente, intendo. E quella storia la sapevano tutti, ormai. La storia delle quindicenne e del ragazzino, sempre chiusi lì, nel garage. Tutti, con strani sorrisi e paure.
In questo paese conoscersi è un po' uccidersi a vicenda; ma io sono un forestiero, giro con i miei prodotti per i negozi e a volte per le case; mi conoscono tutti: sono loro stessi a chiamarmi; socchiudono le imposte delle finestre e mi aprono furtivamente i cancelli, le porte, le case. Non so cosa si aspettino da me, non certo i miei prodotti, che comprano senza neppure vederli. Mi guardano con sorrisi gonfi come mammelle, sembrano imbarazzati; se vogliono dirmi qualcosa, spingono con forza un dito sul ponte degli occhiali.
Spesso mi fermo a parlare col macellaio. Rigagnoli di capillari gli infestano il pacifico volto, che sempre più rassomiglia a quello dei maiali, che occhieggiano rassegnati dalle sue vetrine. Mi dice che qui, con la carne, si sta tranquilli: niente siringhe. Gli chiedo se gli animali soffrono, quando gli sparano in fronte, prima di tagliargli la gola. No, se colpisci al centro e il ferro che scatta fuori dalla pistola va diritto al cervello, altrimenti l'animale si agita e la carne diventa scura, dura. Le ossa frontali del maiale sono più tenere, quelle delle mucche come le nostre. E del sangue dei vitelli cosa ne fa? Alcuni pasticcieri lo usano al posto del cioccolato, per risparmiare. Ci sono tipi che comprano il sangue di maiale per rivenderlo come sangue umano.

Sono diventato amico del parroco, che mi parla per ore del prete giovane, che gli dà tanti problemi, che bisogna controllare. "Certo, gli dico, i giovani vanno controllati, specialmente di sera, quando le bocce infuocate sull'autostrada al più possono servire per indicarti una fossa, una lapide".
I preti traggono forza dalla morte, come gli ubriachi, come me, dalla bottiglia che ora sono costretto a schiacciare contro la bocca, anche se non ho alcun desiderio di bere, di dimenticare. Di quella storia il parroco non parlava volentieri: la ragazza non si drogava; era quanto gli bastava per riappisolarsi. Anche del bambino si limitava a dire che era ben preparato per la prima comunione. Ma andava troppo in giro da solo, a otto anni, come non dovrebbe andare in giro, dico io, neppure un adulto, con i tempi che, si sa, sono quello che sono. Della maestra posso solo dirvi che parlava come se fossi sordo, urlando, come ha l'abitudine di fare la gente di questo paese.
Quella sera non avevo trovato nessun amico al bar: il proprietario serviva di malavoglia i pochi clienti, come se dubitasse che potessero pagargli il conto per le bottiglie e le carte; ogni tanto volgeva lo sguardo verso la strada rischiarata dai motorini.
Era quasi sempre lui, a rastrellare la posta. Mostrava le sue carte vincenti con occhi bassi per camuffare la gioia del guadagno e lo scherno per gli sconfitti. Ciò che colpiva nei giocatori era l'aria sacrale con cui distribuivano le carte e le osservavano. Tutto avveniva con movenze rituali, il riso e lo scherno banditi.
Lasciai che una donna piena di sorrisi mi sedesse accanto e finsi una micragnosa contrattazione: le chiesi tanti particolari sulle sue disponibilità erotiche che si spaventò e andò via. Cacciai dalla consunta borsa di plastica le schede e annotai le ultime ordinazioni, mentre lanciavo oscure occhiate verso una rivista rigurgitante di corpi ingarbugliati.
Uscii. Nella piazza, animata da San Cono che implora i suoi protetti di sottrarlo al gelo degli Alburni, incontrai Manomorta: da quando gli avevo regalato qualche banconota, mi veniva sempre incontro. Dormiva in un camion abbandonato: sembrava essersi rassegnato a non sperare più di poter riscuotere la pensione di invalidità, per una ferita che si era procurato, ai tempi del servizio militare, infrangendo la vetrata con un pugno. Mi disse che il Sindaco gli aveva promesso un posto come bidello; poi disse altre cose, per giustificare, con rinnovato clima d'amicizia che si sentiva in dovere di ristabilire, la richiesta di qualche moneta. Ma lo lasciai deluso.
Scusami, non era una buona giornata neppure per me. Cosa feci, dopo averti lasciato? Mi arrampicai sui tubi, che corrono scoperti, come emisferi cerebrali per uso didattico, sul garage. Cominciai a scorrere.
Erano lì: la ragazza dovette fargli male coi denti. Capita. Ma un bambino certe cose non le può capire. Fece mostra di allontanarsi. Lei lo rincorse, gli carezzò i capelli. Senza, però, riuscire a fermarlo. La ragazza sembrava rassegnata, tranquilla, poi lo rincorse, gli graffiò il collo. Il bambino urlò qualcosa. Una minaccia? Si divincolò, corse via.
Scivolai con la gamba tra i tubi; ebbi paura, ma paura per me, che mi scoprissero. Non pensavo affatto al bambino, su cui qualcosa si avventò col freddo brillio di una stella. Tremando tutto, scivolai all'indietro verso il cemento, verso la salvezza. Ma non andai via. Una volta riacquistata la sicurezza di poter fuggire in ogni momento, mi lasciai risucchiare dalla curiosità. La ragazza iniziò a rivestirsi. Cercò con affanno lo slip, che era finito sotto una ruota, e il reggiseno, che non le riuscì a lungo di allacciare. Si riavviò con insistenza i capelli, come se la cosa potesse avere un'importanza grandissima. Ed eccola accanto a quel corpicino che aveva trascinato in un angolo del garage. Lo guardava senza muoversi. Sentii delle urla, degli strattoni alla saracinesca. La ragazza urlò:"Non posso aprire. Non voglio."
Il resto vi è noto.





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ultimo aggiornamento: lunedì 22 luglio 2002 11.08.01
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