"Una raccolta di saggi che si trasforma in una brillante galleria di grandi protagonisti della letteratura italiana "
Carlo Ossola
Sole 24 Ore
Il volume di studi di Edoardo
Sanguineti si presenta come una galleria di ritratti (dei classici della
letteratura italiana) e un manuale di figure di scherma (mosse di fioretto,
tagli, affondi, ritorni di difesa e di punta) su un corpo di testi ancora
pensato in movimento - ed è già un gran sollievo rispetto alla critica mortuaria
che ci circonda -, incorniciato in incipit ed in explicit da due saggi (Il
chierico organico. Per una storia dell'intellettuale e Tesi sul
"Manifesto") che riportano alle ragioni di un engagement, tra Gramsci e
Marx, mai dismesso e qui solennemente disposto dall’autore.
Sui saggi di "cornice" si tornerà
in clausola. Occorre intanto segnalare che fascino non minore del volume è
quello di alternare il capitolo che presenta l’accessus a un autore (sono quei
saggi pensati in origine da Sanguineti come "introduzione" a un classico:
Guinizzelli, Ariosto, Foscolo, Leopardi, Pascoli, Verga, Gramsci, Vittorini), e
un saggio che mette in luce una prospettiva nuova, un’angolatura diversa di
lettura; studi presentati a convegni, apparsi in rivista, e che ora si
ridistribuiscono lungo l’asse cronologico della letteratura italiana, fornendo
di essa un percorso quasi continuo, incentrato intorno ad alcuni nuclei di
rilievo: le origini della lirica italiana (non si dimentichi che Sanguineti
critico esordisce inaugurando nel 1961 con Interpretazione di Melebolge la
«Biblioteca» di «Lettere Italiane» presso Olschki), il Foscolo e il Leopardi (al
quale sono consacrati quattro saggi), Lucini e i Futuristi, Gramsci
naturalmente. Ma qui è il Sanguineti più collaudato, più sicuro, che riceve in
casa; giova vederlo alla prova con l’Ariosto, con Manzoni, con Calvino.
L’Ariosto tra Boccaccio e Manzoni: come se la nostra letteratura - e forse è
vero - si muovesse tutta intorno a un’unica peripezia d’amore: «E chi guarderà
ai nuclei, come si usa negli schemi scolastici, non avrà tutti i torti, quando
vedrà, adesso, che l’immensa macchina narrativa si agita intorno a una follia
amorosa mirabilmente medicata, con due promessi sposi che intanto, per le loro
vie, approdano al matrimoniale lieto fine» (La macchina narrativa
dell'Ariosto, 1974). La letteratura medica narrando: non sana, persuade
piuttosto che la cura va protratta (come è detto nel Corbaccio e come
insegna il Decameron), nella lunga fortuna medievale di quella che
giustamente Sanguineti ha definito l’aetas ovidiana, il più alto pilastro - con
Virgilio - della letteratura occidentale: «un codice dottrinale e didattico» da
inserire nel racconto delle patologie, delle "passioni" della vita.
Di questo narrare insegnando il
fulcro resta, s’intende, l’ "eterno romanzo" dei Promessi Sposi: chi
voglia comprendere quanto si sia dissolto un mondo di valori che la scuola
trasmetteva e la critica rinnovava legga per primo il saggio Esame di
coscienza di un lettore del Manzoni, 1985. Sono passati appena 15 anni e
sembra un’eternità: «La familiarità con i Promessi è un essenziale elemento
familiare, in breve, è un elemento organico della trasmissione culturale, quale
si organizza per politica parentale, onde l’inoculazione del romanzo può
pareggiarsi in tutto alle vaccinazioni di base, legalmente sancite per le cure
genitoriali, e fare corpo, da tutti i punti di vista, con l’allevamento
primario».
Era una presa d’atto, lievemente
ironica, e suona oggi come un referto tragico: chi può oggi leggere, senza un
amaro trasalimento, quella ricognizione dei fatti: «Dove si apra un deficit
domestico, interviene l’educazione di stato»; si sa, non interviene più nulla,
né in casa, né fuori. Non è "genere proscritto", non è più. Prima di levare lai,
si può prendere in esame l’acuta parabola di Sanguineti: forse il Manzoni «è un
autore da capelli bianchi, è un classico della senilità, è la medicina
letteraria ideale per la terza e la quarta età, è il sommo autore da università
per gli anziani. Vietabile i minori, è consentaneo, pentecostalmente, non al
"confidente ingegno" dei "baldi giovani" . Può ben adornare, per contro, con
"liete voglie sante", una posata "canizie"». Forse si può tentare di rovesciare
il canone, e di ricominciare da Ovidio, anziché da Virgilio nelle nostre scuole,
dal Boccaccio arrivando ad Anna Karenina anziché a Lucia; ma forse è ancor più
vera la sconsolata conclusione di Sanguineti e cioè che, riprendendo un concetto
di David Riesman, noi siamo in un mondo gremito di "folla solitaria" con il suo
auricolare e telefonino, che non cerca più la «cultura dell’autodirezione»
(l’edificazione di sé, di un accento e di uno stile, di modi personali e
condivisibili: Huizinga, Elias, Jankélévitch, etc.), ma soltanto «vie d'uscita»,
grill, deflussi.
Così, quasi necessariamente,
l’approdo è a Palomar e Ulisse: la storia di un dialogo, di una
polemica, con Calvino, sul destino del "ricercare"; una delle pagine più nobili
della nostra letteratura e vita civile, quel tenace, e disperato, sceverare tra
le "false apparenze", per arrivare davvero, con Ulisse e con Proust al "ricordo
di un ricordo", "ricorrendo alle intermittenze oniriche del cuore" (e qui è
Sanguineti che parla).
Infine: si potrebbero leggere
questi saggi, per chi ami Sanguineti poeta, come filigrana preziosa al suo
comporre; e mettere in rapporto, ad esempio, il bellissimo saggio Il nulla in
Leopardi, 1988, che inizia citando le pagine dello Zibaldone, «stese a
Bologna tra il 19 e il 22 aprile 1826, che incominciano con la sentenza: tutto è
male», con l’incipit di una successiva poesia di corollario: «tutto sommato
(scrisse), l’esistente, in generale (siamo nel ’26: / siamo nel mese di aprile),
è una medesta imperfezione».
E tanto più, andrà la cornice di
questi saggi messa in rapporto con il Sanguineti poeta: perché egli sa che
mettere i propri idoli e modelli in cornice è, nella nostra letteratura, sin dal
Cortegiano del Castiglione, ricordare la loro morte: «Morto è il medesimo
messer Alfonso Ariosto, a cui il libro è indirizzato... (I,1).... Tornami
adunque a memoria che non molto tempo dapoi che questi ragionamenti passarono
privò morte importuna la casa nostra di tre rarissimi gentilomini...(IV.1)». Ma
ricordare quella morte nella più visibile cornice è anche celebrare la loro
"degnità", che solleva rispetto e rimpianto, e libera poesia: «perché io sogno
di sprofondarmi a testa prima, / ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi, che
ho perduto tutto, o quasi): (e / questo significa, credo, nel profondo, che io
sogno assolutamente di morire, / questa volta, lo sai): / oggi il mio stile è
non avere stile» (da Postkarten.62).
Così anche la "folla solitaria" ha
trovato il suo alto epicedio.