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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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"Io, Edoardo chierico rosso"

intervista a Edoardo Sanguineti

La Repubblica - 27 settembre 2000


Le confessioni di un materialista non pentito arrivato a settant'anni tra critica e poesia
di ANTONIO GNOLI

Genova. Professor Edoardo Sanguineti, da dove vuole che cominci questa intervista: dai suoi settant'anni o dal libro che è in uscita? "Per caso le due cose vengono a coincidere. Anche se il libro esce un po' prima e il compleanno è a dicembre".
Il libro si intitola Il chierico organico, è edito da Feltrinelli. E' una sorta di storia degli intellettuali. Ha senso ancora parlarne?
"C'è nel libro - che ha curato un mio allievo, Erminio Risso - un sapore gramsciano che a me non dispiace. Naturalmente so bene che una certa immagine dell'intellettuale è finita".
Che senso ha allora riproporne il dibattito, in cosa spera?
"Sono convinto che tutto si leghi a una grave perdita della coscienza di classe".
Oddio, proprio la classe tira fuori, ora che sono saltati tutti gli schemi, le appartenenze.
"Crede davvero che i Berlusconi, gli Agnelli non sappiano di appartenere a un gruppo sociale definito? La consapevolezza si è persa solo fra i lavoratori".
Che cosa ha fatto saltare i meccanismi identificativi?
"Banalmente, la caduta del socialismo reale ha comportato un atteggiamento critico tra gli intellettuali e i lavoratori. E' svanito un equivoco, ma al tempo stesso è crollato un punto di riferimento".
Fa impressione la velocità con cui si sono consumate certe posizioni.
"Tutto è accaduto in modo sorprendente".
Quella cosa lì, che chiamiamo comunismo sovietico, sembra appartenere a un'altra era.
"La svolta è stata epocale. Un crollo verticale e rapidissimo, e un insieme di effetti a catena: via i partiti, gli intellettuali, le idee. Mi fermo per carità di patria".
Questa storia in alcuni ha prodotto disorientamento, in altri rassegnazione, in altri ancora l'idea che comunque la vita continua. Lei come ha vissuto il fallimento?
"Ho cercato di pormi in una posizione diversa: né quella di chi dice torniamo al nostro lavoro come se non fosse accaduto nulla, ma neppure quella di cancellare il proprio passato".
Non si pente.
"Perché dovrei?".
Se non altro per il fallimento di una idea colossale e terribile.
"La storia è andata come tutti sappiamo. C'è qualcosa di irrimediabile in quello che è accaduto. Ma il punto è capire che cosa possiamo fare adesso".
Beh, non può mettere tra parentesi tutto quello che c'è stato e dire adesso ricominciamo.
"No, io penso esattamente il contrario. Sulla mia esperienza agisce in maniera decisiva il fatto che compio settant'anni. Ho visto con i miei occhi quando Mussolini venne a Torino. Era il 1936, ero un ragazzino, lo ricordo a Palazzo Campana che si affacciava dal balcone. E ho visto le SS. Per fortuna ero giovane e il destino ha voluto che arrivasse la liberazione. Non pensa che tutto questo abbia avuto un peso nella mia esperienza? Allora perché dovrei buttarla via?".
L'impressione è che lei per problemi di coerenza cerchi di salvare pezzi di un discorso andato in frantumi.
"Non ho nessun problema con la storia passata, né intendo guardarla in termini unitari. Dico semplicemente: riflettiamo sull'esperienza attuale. E niente spiega meglio il mondo di oggi di una visione materiale delle basi dell'esperienza".
Il suo cavallo di battaglia resta il materialismo storico.
"Per me rimane ancora un punto di riferimento. Meglio, l'unico modo per cercare di decifrare il reale. Operare alla luce di questo metodo, ha anche un valore politico".
Questa sua ortodossia è un modo per riaffermare un'identità perduta, dichiarare la propria storia, o che cosa?
"Non parlerei di ortodossia perché tra l'altro non c'è più nessuno a cui rispondere. La parola aveva un senso in passato, quando indicava un certo modo di essere militanti".
Un certo stile di vita...
"Ma non solo, era anche il riconoscimento che esistevano delle autorità a cui fare riferimento".
Le resta, lei dice, il materialismo storico. Cioè Gramsci, al quale mi pare si sente particolarmente legato.
"Non solo, c'è anche Benjamim".
Due personaggi molto diversi, come fa a tenerli assieme?
"Intanto c'è una sostanziale contemporaneità. Nel loro periodo falliscono le socialdemocrazie e trionfa in Europa la reazione. Consideri che sono due personalità molto chiuse e tormentate. Entrambe, di fronte a una sconfitta storico politica, reagiscono gettando il loro sguardo critico oltre la contemporaneità".
Sicuramente hanno uno sfondo comune, ma i loro percorsi sono molto diversi. Le tesi sulla storia di Benjamin sono intrise di un profetismo che è estraneo a Gramsci.
"Non volevo appiattire l'uno sull'altro. Ma Benjamin, per il problema che lei solleva, è stato oggetto di infinite interpretazioni. Personalmente inclino a una lettura secolarizzata di questa visione teologica. Ma c'è un'altra cosa..."
La dica.
"Finché è stato possibile hanno tenuto fede alle loro idee in una sorta di disperazione terminale e le ragioni si intuiscono. In Gramsci c'è il dissolversi, perfino fisico, della possibilità di continuare. Ma fino all'ultimo ha cercato di fare il proprio lavoro. Così Benjamin, che fino alla fine ha operato malgrado la fuga per il terrore di finire nelle mani della Gestapo".
Mentre lei parlava pensavo: Gramsci e Benjamin hanno riflettuto e teorizzato, ciascuno a suo modo, attorno al materialismo storico. Ma il solo ad averlo messo in pratica è stato il capitalismo. Non trova tutto questo paradossale?
"E' vero. Ma il materialismo di cui è imbevuto il capitalismo è cieco per la completa assenza di prospettive. Significa solo: fare soldi".
Tutta qui la filosofia del capitale?
"C'è stato un tempo in cui contava. Ma oggi la filosofia del capitale non è più fatta da grandi pensatori, ma dai direttori delle reti televisive, dai giornali, dagli organizzatori pubblicitari, dai persuasori occulti. Girls e ballerine hanno preso il posto degli intellettuali e dei professori".
E' anche per questo che ha lasciato l'università?
"A settant'anni potevo anche rimandare il congedo. Ho preferito abbandonare, perché sono un po' stanco per la piega che l'università ha preso".
Le rimane la politica.
"Anche lì ho già dato. Mi auguro semplicemente di tornare a scrivere".
La sua scrittura ha un nemico: il sublime. Lei detesta la bella frase. Perché?
"Perché questo è un paese di grande retorica. C'è ancora chi pensa in stile ancienne régime. Sono per cose più ostentamente prosaiche".
Anche nello stile c'è chi sta sopra e chi sta sotto.
"E' vero, e nel sopra c'è tutto il dannunzianesimo, che è una forma di ideologia culturale, oltre che estetica".
Morta?
"Non direi, c'è una sorta di D'Annunzio-renaissance che ha preso corpo, e un ritorno al grande stile, alla poesia alta, al lirismo pieno e alle parole innamorate".
E' uno dei motivi per cui continua a detestare Pasolini?
"Beh, il suo estetismo, anche se rivolto alla miseria e all'orrore, una specie di sublime del basso, era proclamato, confessato e in fondo coltivato. Pasolini era un uomo in buona fede, ma io ho continuato a vederlo come un corruttore".
Allude alla sua omosessualità?
"No, alludo al fatto che il suo anticapitalismo era pieno di nostalgie per un mondo perduto e irripetibile".
Non salva nulla di lui?
"Per me rimane un personaggio perturbante. Mi colpì la sua autocritica: un uomo che passa dal trionfo dell'eros e della felicità dei mondi primitivi a Salò è uno che cerca di guardarsi dentro, per scoprire che cosa si agita nel suo profondo".
E' un modo di tormentarsi...
"E' anche il modo in cui l'estetismo passa dal vitalismo estremo alla pulsione di morte".
Trovo ingiusta l'accusa di corruttore.
"Forse lo vedo a torto come responsabile di molti equivoci che hanno attraversato la nostra storia. Ma quel suo non star bene da nessuna parte, quella volontà di essere eroico, quel suo sublime così seducente per i giovani mi sono parsi molto svianti".
Lei è un critico, oltre che un poeta e uno scrittore. Cosa pensa del modo in cui oggi la critica viene svolta?
"I recenti sviluppi - diciamo quelli decostruttiveggianti - mi interessano sempre meno. A mano a mano che passa il tempo mi sento sempre più isolato. Ho visto molte cose deperire e mi domando fino a che punto appartengo alla normale categoria del vegliardo che esprime solo il proprio pregiudizio amaro sul mondo".
E allora che fa?
"Faccio la tara sui miei pregiudizi generazionali e mi tengo aggiornato. Nonostante questo l'effetto di isolamento è notevole. Il che non mi toglie il gusto del fare, ma non ne aggiunge nemmeno".
E' un obbligo, una necessità, come quello che notava in Gramsci e Benjamin...
"Perché mai, mi dico, dovrei cedere di un millimetro quando quelli non cedevano di fronte a una realtà ben più disperata e dura".
Si sente un eroe dell'odierna resistenza?
"Macché. Ho avuto un'esistenza abbastanza comoda, non ho pagato nulla duramente, sono passato indenne attraverso gli anni di piombo quando il terrorismo gambizzava, ho settant'anni e sono semplicemente qualche passo più vicino alla morte".
E' un argomento al quale le capita di pensare?
"Sì, ma una cosa è pensarla, altro è viverla. Anche se su questo ci tengo ad essere prudente. Ricordo un episodio lontano. Dopo che lessi in pubblico un mio testo venne da me un giovane che mi disse di avere imparato una cosa da quella lettura, e cioè che non bisogna aver paura della morte. Io non so se davvero un messaggio del genere sia contenuto nei miei scritti. Però se esistesse in qualche pagina sarei felice. Sarebbe il segno che della morte si può parlare senza drammi".


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ultimo aggiornamento: martedì 6 marzo 2001 21.08.42
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