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versione telematica del quadrimestrale di scrittura e critica diretto da Edoardo Sanguineti e Nadia Cavalera
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Lo stato della performance

Paolo Guzzi

12/08/2002


ART is the demonstrated wish and will to resolve conflict through action, be it spiritual, religious, political, personal, social or cultural.
Alastair Mac Lennan

L’ARTE è il dimostrato desiderio e volontà di risolvere un conflitto, sia esso spirituale, religioso, politico, personale, sociale o culturale mediante l’azione.
Alastair MacLennan

L’abolizione dei limiti tra i codici della creatività, costringe coloro che studiano tali fenomeni a varcare anch’essi i confini di uno specifico occupandosi anche nella stessa misura di più espressioni artistiche. Oggi, osservare il mondo dell’arte di ricerca obbliga a sconfinare in campi un tempo rigorosamente delineati e quindi a parlare di poesia e di teatro quando non di musica e di tecnologie contemporanee. Il che porta, se possibile, ad esplorare con attenzione più aree che nella ricerca artistica si intersecano continuamente. Così accade per chi voglia chiedersi cosa sia stata e cosa sia oggi la cosiddetta performance, o azione, o intervento.
Patrice Pavis, studioso di teatro, nel suo Dictionnaire du Théâtre dedica alla performance una voce abbastanza ampia e poi tenta una definizione del performer. L’inserimento di tali voci in un dizionario teatrale farebbe pensare che la performance sia teatro. Ma non è proprio così e vedremo perché.
La performance - come viene chiamata in inglese e in francese, con diversa accentazione, ma il francese adopera anche intervention, il tedesco Aktion, l’italiano azione, intervento, mentre lo spagnolo traduce espectaculo - è detta anche performance art e si potrebbe definire “teatro delle arti visuali” oppure “arte dal vivo” o “arte vivente”. Alastair MacLennan, l’artista citato in esergo, la chiama semplicemente arte, un’arte che si esplicita mediante l’azione.
Siccome la performance associa, senza idee preconcette, le arti visive, il teatro, la danza, la musica, il computer, la poesia e il cinema, ma non tutti questi codici insieme, andrebbe giudicata, caso per caso. E volendo farlo (e noi vogliamo farlo, perché il fenomeno ci interessa, oggi più di ieri, in quanto sta prendendo largo piede ovunque nel mondo, più che in Italia, come spesso succede), andrebbe descritta non soltanto dal punto di vista storico, ma anche dal punto di vista critico, a seconda dei vari codici impiegati, secondo i punti di riferimento di quei codici, considerandola fenomeno totalmente a sé, come “arte nuova” tra virgolette, con i suoi nuovi e particolari concetti interpretativi.
Il performer mette l’accento sull’effimero e sull’incompletezza della produzione, piuttosto che sull’opera d’arte, rappresentata e completa.
Durante un festival della performance a Lione, chiesi al polacco Warpechowski quando avesse intenzione di “recitare” (adoperavo l’inglese to play). Mi rispose in inglese che avrebbe di lì a poco performing, “performato”, non “recitato”, dicendomi così quanto tenesse a essere considerato non, riduttivamente, un attore che reciti una parte, ma di volta in volta, un autore recitante se stesso, un pittore, un danzatore e, per l’insistenza sulla sua presenza fisica in scena, “un autobiografo scenico”, come formula Pavis, “che possiede un rapporto diretto con gli oggetti e con la situazione enunciativa”.
Warpechowski di lì a poco si presentò in ambiente aperto, vestito come un barbone, mentre seminava chiodi grossi, dappertutto, con una maschera sul volto e fischiettava Chopin, quindi si mise a soffiare in un sacco di plastica per raccogliere la spazzatura. A un certo punto accennò il canto dell’Internazionale, liberando alcune tartarughe, che presero a circolare tra i piedi del pubblico. Chiaro il significato metaforico voluto dal performer, che denunciava una realtà ancora viva e bruciante del proprio paese, inserendosi nel contesto urbano come l’ultimo degli emarginati, per scelta, apparendo come per caso tra la gente, il pubblico, e occupando tutti i punti di vista che destabilizzavano quindi l’osservatore, il quale non sapeva più dove stare né dove guardare e provava disagio per quanto vedeva.
Sempre citato da Pavis, dice sbrigativamente Jeff Nuttal: “La performance è perpetuamente stimolo ripetuto per artisti che considerano il loro lavoro qualcosa di ibrido, che lasciano senza vergognarsi le loro idee andare alla deriva, verso il teatro da un lato, verso la scultura dall’altro, badando più alla vitalità e all’impatto dello spettacolo piuttosto che alla rigorosa definizione teorica di quanto stanno facendo. L’arte performativa, a ben vedere, non vuol dire nulla.”
Il cattivo giudizio di Nuttal va comunque modificato, con poca animosità ma con lucidità.
Guardiamo al rapporto della performance con il teatro. La compresenza di vari codici e la rappresentazione, la mise en scène, sempre più presente, ci obbligano a chiederci se si tratti davvero di teatro o, se non è teatro, di cosa veramente si tratti.
La performance si sottrae, forse, ad ogni definizione, non alla descrizione.
Andrea Nouryeh vi distingue cinque tendenze:
  1. La body art o arte del corpo che utilizza lo stesso corpo del performer per metterlo in pericolo, esporlo o saggiarne l’immagine che ne risulta sul pubblico;
  2. L’esplorazione dello spazio e del tempo mediante spostamenti estremamente rallentati o dilatati (una performance può durare 24 ore o giorni e giorni oppure alcuni minuti in cui si vuole dimostrare un assunto facilmente recepibile, e immediatamente, dal pubblico partecipante;
  3. La presentazione autobiografica in cui l’artista racconta avvenimenti reali della propria vita;
  4. La cerimonia rituale e mitica;
  5. Il commento sociale: in questo modo si combinano a volte spettacoli multimediali con l’ausilio di strumenti altamente tecnologizzati.
Nouryeh non ricorda, e Pavis con lui, l’esperienza della cosiddetta poesia fonetica e sonora, che esprime - mediante la voce, con i suoni che fuoriescono dunque dalla gola - gioia o disperazione, vocalizzi gutturali, suoni avulsivi o revulsivi, che manifestano impotenza e dolore (Fontana, Vitacchio, Bertola Ferrando, Isabella Beumer, Jaap Blonk e prima ancora Bory e Heidsieck).
Performer è, come ormai sappiamo:
termine inglese adoperato ovunque per evidenziare la differenza con il termine attore, ritenuto troppo limitato.
  1. Il performer è di volta in volta il cantante, il danzatore, il mimo, in breve tutto quanto l’artista è capace di realizzare (to perform) su una scena o anche al di fuori di essa, per le strade di una città ad esempio, o in campagna. Il performer realizza sempre qualcosa di eccezionale dal punto di vista vocale, gestuale o strumentale, in opposizione all’interpretazione mimetica dell’attore.
  2. In senso più specifico il performer è colui che parla e agisce a titolo personale (come artista e persona) e si rivolge al pubblico, mentre l’attore rappresenta il suo personaggio e finge di non sapere che egli è soltanto un attore di teatro. Il performer mette in scena se stesso, l’attore recita la parte di un altro.
Ecco dunque la profonda differenza tra performer e attore. Il che non permette al performer di dimenticare o trascurare le regole proprie dello spettacolo. E cioè quelle che rendono comprensibili al suo pubblico le sue azioni. Le qualità del performer devono essere attoriali, comunque. Cioè deve esserci quella capacità di stare sulla scena, di presentarsi al pubblico, di mascherarsi (da se stesso, certamente, non da altro personaggio), di proporsi con una voce e un gesto che siano studiati, non casuali (come spesso avviene, con il pretesto di presentarsi così come si è). Si rischia altrimenti di non farsi comprendere e di imporsi in maniera sgradevole, anche quando non lo si voglia. Lo esige il fatto che la performance è uno spettacolo e non un avvenimento improvvisato che avvenga, come per caso, a riscaldare l’atmosfera di una serata tra artisti.
Nella introduzione alla mostra recente Le Tribù dell’Arte (catalogo Skira, che contiene molti saggi illuminanti sulle ultime esperienze dell’arte di ricerca nel mondo) Achille Bonito Oliva fa la storia della performance a partire dagli anni Cinquanta.
“Happening e events costituiscono la vaporizzazione estetica di un processo creativo che tende a smaterializzare l’opera e a valorizzare il momento aggregativo tra l’artista e lo spettatore”, “prevale il valore di partecipazione attiva che rende tribale, sincronica e sinergetica l’azione collettiva dell’artista e degli spettatori” (p. 19). Lo happening nasce negli ambienti del new dada americano, gli events provengono dal gruppo fluxus. I pionieri di tale dimensione estetica sono stati Kaprow, Oldenburg, Vostell e Lebel. Molte le date significative, ma ricordiamone una soltanto, già avanti nel tempo, quella più vicina a noi:
Il 21 maggio 1974, la performance di Beuys: un’ambulanza parte dall’aeroporto Kennedy di New York, all’interno c’è Beuys appena arrivato dall’Europa. Beuys, come si sa , viene trasportato alla Block Gallery in una gabbia al cui interno, separato da lui, è tenuto un coyote. Beuys chiede ogni giorno 50 copie del Wall Street Journal con cui costruisce due colonne identiche. Appeso al collo ha un triangolo che di tanto in tanto fa suonare. L’azione, ricordiamolo, si intitola I Like America and America Likes me. Animale e uomo convivono per cinque giorni nella gabbia, senza che apparentemente si stabilisca un rapporto tra loro. Eppure un rapporto si stabilisce, e lo dimostrano le foto scattate per l’occasione. Dopo cinque giorni Beuys si fa riaccompagnare in ambulanza all’aeroporto e riparte per l’Europa.
Nota bene Cecilia Casorati (Le Tribù dell’Arte, p. 319) che tale performance “segna una svolta del fenomeno artistico per il rapporto individuale che si viene a creare con lo spettatore e il rapporto politico non più soltanto artistico con il territorio”. Beuys inoltre sposta l’attenzione dell’artista su di sé, respingendo ogni spettacolarizzazione e centrando l’azione sull’artista come assoluto protagonista o eroe. Tale lezione perdura anche oggi, sin tanto che però l’azione non venga spostata, a sua volta, dal territorio alla scena teatrale. Ciò crea il problema della frizione dell’artista e della sua azione con l’azione per eccellenza, che è quella precipuamente teatrale. Infatti, lo sconfinamento dai propri territori linguistici da parte dell’arte, o addirittura il loro superamento trasgressivo, non vuol dire (lo nota Mario Perniola in L’arte e la sua ombra, Einaudi, 2000, pp.67-68) “un’assenza di norme”, una totale libertà del fare. Tanto più che l’arte performativa chiede l’ausilio del corpo come ombra e come pennello, come presenza su di una scena. Il corpo diviene oggetto e organizzazione originale di invenzioni e di comunicazioni in proprio. Nella performance il corpo è materiale a se stesso e alla propria tecnicizzazione artistica. In seguito, al corpo “carne” che viene bucato, tagliato inciso, scritto, “si sostituisce un corpo macchinico, protesico, che muta la stessa materia prima biologica dell’uomo”. E si pensi alle protesi assurde e “inutili”, quali i copricapo di Ferrando (cfr. A. Caronia, Il corpo virtuale, Padova, 1996).
Si tratta dunque di un’arte in progress di cui non si prevedono gli sviluppi. Questi - a mio parere - andranno sempre di più nella direzione del teatro e di un teatro totale, in cui la parola assume una valenza debole nei riguardi dell’intero avvenimento o, al massimo, ha una presenza paritaria con gli altri elementi che compongono il tutto. Se qualcuno si propone come se stesso oppure come come interprete, ma di qualcuno che gli assomigli, se questo qualcuno cerca la complicità del pubblico, che viene chiamato non soltanto ad assistere con la sua presenza passiva, seduto, ma invece a partecipare all’azione suggerita dal performer, dall’artista, dall’autore (si pensi a Ferrando, ad Aguyar, a Fabio Mauri, a Pignotti), potremmo anche dire che allora siamo vicini in molti casi, nella performance, ad una forma di teatro (e coinvolgimenti del genere non sono nuovi, si pensi negli anni Sessanta e Settanta al regista Ljubimov, ma anche a Remondi e Caporossi, ai Magazzini, ai più recenti spettacoli della Socìetas Raffaello Sanzio), una forma di teatro che vede l’azione, la partecipazione del pubblico nella espressione visiva di un concetto, di un’idea, che può essere semplice o anche complessa, ma che è comunque immediatamente comprensibile.

Il futurismo


Il futurismo è considerato uno dei movimenti dell’avanguardia storica cui molto deve la performance, specialmente quella italiana. Infatti molte serate con tratti che potremmo definire performativi vennero tenute dai Futuristi, in Italia e all’estero. Per esempio al caffè Giubbe Rosse di Firenze, sede ancora oggi di manifestazioni della neoavanguardia e della poesia visiva, o in alcuni luoghi storici di Roma. Ricordiamo due serate.
Nel 1933, a Roma, Galleria Sprovieri. Nella nota “declamazione alla lavagna”, che scatenò l’ilarità del pubblico e l’entusiasmo di Trilussa, Filippo Tommaso, serio e compunto, declamava con perfetta dizione brani del suo volume parolibero Zang Tumb tumb, mentre Cangiullo (detto Cangrullo dai camerieri delle Giubbe Rosse e per gli amici don Ciccillo) disegnava e cancellava su una lavagna di tela cerata, a seconda dell’occorrenza, le immagini evocate da Marinetti: quattro stelle apparse (e lesto Cangiullo disegna sulla lavagna quattro stelle), quattro stelle scomparse (cancella le stelle), otto stelle apparse (disegna otto stelle). Come riferisce lo stesso Cangiullo, “la gioia sganciata degli spettatori, con relativi battimani, veramente di cuore per la nostra trovata geniale che permetteva loro di vedere realmente apparire e sparire le stelle come per un gioco di prestigio sidereo, fu come di un pubblico che soffra terribilmente il solletico e solleticato applauda". Cangiullo ci dà poi la descrizione di Raffaele Viviani, che può essere considerato un antenato dei poeti sonori per la versatilità della voce.
Sempre a Roma, al Salone Margherita, una sera, fu organizzata una esposizione di opere dei futuristi, da visitarsi nell’intervallo dello spettacolo di café chantant. Tale spettacolo però non ci fu, nel senso che l’interessante fu quanto accadde dappertutto nel teatro, tranne che sul palcoscenico, diciamo quasi senza preparazione. In questo senso si ebbe una vera performance, una performance che riscosse un insuccesso strepitoso, ma che cominciò a marcare la necessaria interazione tra pubblico e artisti: il pubblico prese a lanciare ortaggi di ogni tipo sulle marsine dei futuristi, i quali se ne stavano impettiti, seduti nelle prime file. Il pittore Balla, che si era fabbricato un grosso braccio di legno, lo infilava tra i lembi del sipario chiuso e con quello incitava o eccitava la platea con gesti offensivi. Per l’occasione il macchinista, ubriaco, aveva attribuito alle scene un unico numero, per cui era impossibile una loro ordinata successione. La vedette Diana McGill litigava a voce altissima, dietro le quinte, con il suo impresario. Luciano Folgore, poeta futurista, continuava impassibile a snocciolare freddure a Marinetti, che gli rispondeva distrattamente: “Benissimo, benissimo!”. Un attore, ad un tratto, presa una pistola, mostrò di voler sparare sulla platea, creando notevole panico. Dal loggione gli tirarono contro alcune monete di rame, che lo colpirono sulle orecchie e in testa. Il pubblico allora si mise a tumultuare gridando che gli si restituissero il denaro del biglietto.



Oggi

Oggi la performance sta prendendo molto spazio, ottiene la migliore audience e suscita grande interesse presso il pubblico, complice quel gusto per l’immagine e l’abitudine a guardare che abbiamo tutti, specialmente i giovani. Si tengono festival dappertutto, in Canada come in Giappone e in Corea. In Europa ci sono stati nel 1979 e nel 1983 i simposi di Orlan e Hubert Besacier, mentre i festival di Lione del 2000 e del 2001, organizzati artisticamente da Sylvie Ferré, possiamo dire abbiano fatto il punto sulla notevole evoluzione di questa forma artistica pluridisciplinare, che attraversa ormai il mondo intero sotto il nome di «arte vivente».
Tali festival hanno avuto l’ambizione, in larga parte fondata, di istituire gli stati generali di questa arte (per alcuni l’ottava arte), che si trova alla commessura dell’espressività contemporanea. Tra le domande poste la più frequente è stata: dove si situa la zona, il perimetro, il territorio di queste espressioni nomadi, autonome e pluridisciplinari insieme? Difficile è rispondere. Alcuni la considerano la più antica e versatile tra le forme di espressione. La messa in gioco del corpo si verifica in tutte le culture, in tutti i periodi, dalla preistoria ai nostri giorni. La performance riprende alla sua maniera queste pratiche corporee nel contesto delle nostre società urbane e contemporanee. Il fenomeno performativo non è quindi relegabile unicamente agli anni cinquanta e sessanta, come cioè un’arte delimitata nel tempo e quindi marginale.
Essa però oggi fa esplodere l’arte tradizionale, nel senso che la pone sotto scacco, la destabilizza e la obbliga alla chiusura, sollecita l’azione diretta, impone il corpo in primo piano, oggi quando l’immagine è fondamentale e il mettersi in vista prende pubblico e artisti al punto che a volte si scambiano di ruolo e, come si dice, interagiscono. “Opera aperta” per eccellenza, nel senso in cui ne ha parlato Umberto Eco, il quale ha scritto che “non ci sono modelli unici, è un’arte camaleontica che si adatta e si modifica”.
Quella polverizzazione artistica che tende a smaterializzare l’opera, di cui dice Bonito Oliva, va ancora più accentuandosi in questi ultimi anni, tanto che ormai non più di polverizzazione si tratta, a mio parere, ma di materializzazione, di una materializzazione dell’artista in quanto corpo vivo, interamente opera d’arte che esprime se stesso in movimento e in evoluzione, con un chiaro significato metaforico, immediatamente intellegibile per il pubblico. Non si tratta più dunque di semplice sconfinamento occasionale. Oramai il confine è attraversato del tutto e dall’altra parte l’artista tutto intero esprime le sue idee direttamente con il movimento, la parola, il gesto, e con tutto quanto altro intenda presentare a sostegno del suo fare.


Linee di tendenza

Riprendendo ancora la definizione di Alastair MacLennan, ci convince la definizione dell’arte come conflitto che si dovrebbe risolvere mediante un’azione. I vari tipi di conflitto, siano essi spirituali, religiosi, politici, personali, sociali o culturali, tracceranno le linee dell’ampia griglia in cui racchiudere l’evento performativo.
E’ difficile oggi rilevare linee marcate di tendenza, mentre certamente esistono artisti che si esprimono secondo loro convinzioni e peculiarità. Le tendenze enunciate da Pavis nel 1997 sono ancora valide (anche se pochi anni potrebbero fare la differenza), ma vanno sempre più prendendo piede i cosiddetti poeti sonori, che privilegiano le tonalità della voce, anche come pura esibizione di abilità (Jaap Blonk, Amanda Stewart, Isabella Beumer), mentre altri sono più attenti al significato (Nicola Frangione, Endre Szkárosi, Valeri Scherstianoi, Bartolomé Ferrando, Giovanni Fontana, Tomaso Binga). Oltre alle femministe (Irma Optimist, Tsuneko Taniuchi, Anne Seagrave, Nadine Norman), è frequente una espressa inclinazione politica in quegli artisti che provengono da paesi coinvolti in avvenimenti politici e bellici di notevole impatto emotivo, come Balint Szombaty, che durante un’azione riduce in cenere la carta geografica della ex Yougoslavia, per significare l’attuale frammentazione del suo ex paese, come Alastair MacLennan (Irlanda del Nord) che a Lione ha tenuto una performance di otto ore sulla piazza principale della città, oppure come il già citato Warpechowski che, al modo in genere degli artisti polacchi, è connotato fortemente dalla politica e dalla religione. Esiste inoltre una tendenza intima, concentrata su quanto il corpo nasconde, che viene rivelato ed espresso denudandolo in pubblico, dandolo in pasto agli occhi incuriositi dello spettatore: Shimoda (giapponese) costruisce complesse azioni in cui il corpo ha una dominanza su altri aspetti pure presenti, Paul Nagy (ungherese che vive in Francia) prima compie una polemica azione contro i telefonini portatili e poi non esita a scostare l’impermeabile per rivelare il suo corpo di vecchio, Ma Liu Ming (cinese) si presenta completamente nudo ed immobile, dormiente, e si fa fotografare con gli spettatori che, a turno, lo affiancano, Takalo Eskola (finlandese) durante un dibattito si denuda e attraversa la platea senza parlare.
Il rigore politico, ma anche estremo, di Vaara, che si fa legare a testa in giù e offre al pubblico un braccio disteso sino allo spasimo, si può affiancare al gusto per il limite espresso dal quasi suicidio in diretta dell’inglese Roddy Hunter, il quale in ginocchio resiste, con un cappuccio di plastica in testa, sino all’ultimo respiro, sino a un istante prima di svenire per mancanza d’aria. Il gusto per l’extreme si va ampliando in questi anni recenti: più essi sono drammatici, più compaiono nelle azioni artistiche l’autopunizione, il masochismo, la ferita ed il sangue. Jan Fabre, recentemente a Roma con istallazioni e con uno spettacolo teatrale sul corpo in rivolta (Teatro Argentina), testimonia questa complessità di moventi e di realizzazioni che complicano il lavoro di coloro che oggi vogliano seguire delle linee precise e definite nella performance. Tali linee invece sovente si intersecano per la frequenza con cui questi artisti si incontrano e si confrontano in ogni parte del mondo, cosicché non è neppure agevole evidenziare, almeno a tutt’oggi, una linea completamente europea.


In Italia

In Italia, anche in anni recenti, è sempre molto presente l’esperienza del Futurismo: Arrigo Lora Totino, Giuseppe Chiari, Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Gianni Fontana, Tomaso Binga mantengono anche un forte rapporto con la parola e quindi con la letteratura, piuttosto che con esperienze artistiche più internazionali, americane e europee (Fluxus), giapponesi (Gutai e Mono-ha), polacche o del Cabaret Voltaire. Alcuni amano esperienze più teatrali, più costruite, per esempio Fontana, Frangione e Fabio Mauri, di cui è ben noto il lavoro di lunghi anni e di cui abbiamo visto, appunto in occasione di una vetrina del Centro nazionale di Drammaturgia (Roma, Teatro Greco), la Lezione su lezione d’inglese. Ancora più teatrali sono Renato Mambor e Pippo Di Marca, ciascuno naturalmente con le proprie peculiarità e le proprie caratteristiche.
Accanto, o intorno, a questi artisti ruota - parcellizzandosi nelle occasioni del momento - una notevole quantità di operatori, ma è difficile ancora individuare delle linee di tendenza precisa, anche perché non esistono teorie diffuse, in Italia, salvo quelle della «poesia visiva» e del «Gruppo 70», datate agli inizi degli anni sessanta, ma che soltanto di recente hanno cominciato a documentarci con foto e a storicizzarsi anche dal punto della performance.
Una caratteristica peculiare degli italiani è forse l’ironia con cui essi svolgono le loro azioni, un’ironia piuttosto rara in altri artisti europei e extraeuropei. Gli italiani, si sa, non si prendono mai troppo sul serio, almeno in apparenza, e qui sta il loro limite ma anche il loro pregio. Tutti fortemente orientati al lavoro sul linguaggio, qualcuno, come Tomaso Binga, si è fatto coinvolgere dal femminismo, qualcun altro come Pignotti e Miccini, dalla letteratura e, specialmente in anni passati, dalla politica e da quanto di politico ci fosse nell’esplodere della pubblicità, che incitava al consumo sconsiderato in una situazione politica densa di sommovimenti come era quella dell’Italia alla fine degli anni cinquanta e sessanta. La vittoria del mercato è purtroppo oggi sotto gli occhi di tutti, ma le azioni del «Gruppo 70» in questa direzione non sono state inutili dal punto di vista dei risultati dell’arte.
In Italia, pur ampliandosi l’audience di questa forma d’arte, anche in Sicilia e nel Mezzogiorno in genere, manca ancora quella volontà di organizzarsi che invece si sta avendo a livello internazionale. Recentemente a Helsinki, a settembre, sotto l’impulso di Sylvie Ferré è nata un’associazione di organizzatori della performance che, si prevede, cercherà di rafforzare tale disciplina negli anni futuri. In Italia manca la crudeltà e il gusto per l’extreme, di cui si è detto. Siamo un po’ troppo delicati ed eleganti, gesticoliamo troppo. Il sito internet del famoso gruppo di artisti «Black market», sembrerebbe degno della voce «Rinascimento italiano».
Occorrerà potenziare e organizzare meglio gli incontri performativi, creare più frequenti occasioni di confronto. I nostri performers, a volte molto bravi, non godono della notorietà che invece, in qualche caso, hanno fuori dai nostri confini. Forse perché sono ancora molto legati alla parola, e non si può dare loro torto, ma purtroppo la nostra lingua, minoritaria, trova difficoltà a penetrare all’estero ove tutti ormai si esprimono in inglese. Ma forse occorre anche migliorare la professionalità. E’ vero che l’azione performativa non è teatro, in quanto però azione in pubblico e con il pubblico, non può rimanere improvvisata. La si poteva lasciare all’impulso del momento nel caso dell’happening che si veniva creando quasi ai piedi, diciamo così, dell’opera, nelle gallerie di esposizione, ora invece in un susseguirsi di esibizioni programmate è necessario riferirsi a tecniche teatrali, senza le quali non si ha un reale coinvolgimento del pubblico, la cui attenzione scema quando vede un movimento mal fatto, un gesto non studiato, un’espressione del volto non curata. Una volta assodato che si tratta di interventi presentati al pubblico non in maniera occasionale, come invece agli inizi, occorre che il performer curi da professionista il proprio intervento, specialmente se avviene non in luoghi deputati (gallerie, musei), ma in festivals dove le azioni, numerose e separate le une dalle altre, si svolgono in ambiente detestualizzato.


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ultimo aggiornamento: lunedì 22 luglio 2002 10.29.55
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