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versione telematica del quadrimestrale di scrittura e critica diretto da Edoardo Sanguineti e Nadia Cavalera
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Lo scandalo

Franco Cavallo

01/07/2002


Per essere uno scandalo, lo era senz’altro; anche se si trattava di uno scandalo dalle proporizioni minime. Un poeta che aveva sempre dichiarato di volersi muovere sul limite estremo della parola, sul Fronte avanzato della Fine del Verbo, sia fisico che metafisico, della incombente minaccia di morte delle specie e dei loro derivati, linguaggio e scrittura inclusi, che si metteva a scrivere racconti? Era veramente il colmo!
E tutte le ciarle, le reiterate filippiche e discussioni e polemiche che c’erano state in quegli anni sugli scempi perpetrati quotidianamente dalla industria culturale in generale e del romanzo in particolare; insomma: dall’industria dello spettacolo tout court, che fine avrebbero fatto?
Guy Debord: messo nell’armadio anche lui? Relegato anche lui in soffitta a farlo rosicchiare dai topi e dalle tarme? Confinato, come Artaud, tra le vittime dell’olocausto della scrittura e del gesto spettacolare che è nemico mortale d’ogni ricerca di libertà?
Debord s’era suicidato, per questo. Lui lo sapeva. Eccome se lo sapeva. Come Artaud, il più volte per lui Saint Antonin Artaud, era finito nel manicomio di Rodez... Poteva esistere un modo più vergognoso, più inverecondo di tradire se stesso e il proprio passato?
Mentre scriveva queste frasi, rideva tra sé e sé. Certo, sei un bel rotto-in-culo, si diceva; ti prepari da solo l’accusa e la difesa. Chi l’avrebbe detto che saresti arrivato a tanto?
Ma non era tutto così semplice, o almeno così lui credeva; né tutto era così falso o vile come ad un primo impatto poteva sembrare.
In quel momento per lui un’unica legge valeva su tutto: sopravvivere fisicamente ad ogni costo. La follìa, la malattia e il suicidio erano già stati vissuti e rappresentati: a che scopo ripeterli? Sarebbero stati, ad ogni modo, dei gesti epigonici. Bisognava andare oltre e, se del caso, bisognava fare un passo indietro...
“Intanto… intanto stai già scrivendo il tuo primo racconto…” si disse ancora sogghignando con la sua aria da Mefisto.
Ma si chiese anche: “Non sarò forse troppo impietoso con me stesso?” E concluse: “Magari sto un po’ esagerando...”
Il desiderio di raccontare delle storie, di inventarsi dei copioni gli era cresciuto dentro con la stessa voglia di continuare a esistere, con la stessa smania di tornare a essere qualcuno, qualcosa; non socialmente (figurarsi!) e men che mai economicamente (la sua agiatezza se l’era costruita da un pezzo), ma solo biologicamente; gli era ‘spuntata’ nella medesima maniera di come, per un motivo sconosciuto, o conosciuto soltanto dal medico, dal dermatologo, sulla pelle spunta all’improvviso un eczema, o nelle parti più intime una micosi: non ne conosceva la ragione. O forse, essendo egli in questo caso sia il paziente che il medico, la vera ragione la conosceva, ed era perfino troppo chiara, troppo esplicita; solo che cercava di dissimularla a se stesso: chi legge più i poeti?
“I poeti non li ha mai letto nessuno.”
“Una volta, forse…”
“Mai, ti dico. Ciò nonostante essi esistono, sono sempre esistiti ed esisteranno sempre.”
“Una volta, forse, erano meno non-letti di adesso.”
“Una volta, forse, quando c’erano le carrozze e i cavalli andavano a vapore… forse... quando le donne portavano le crinoline e si mettevano i nei finti sui seni e per spogliarle, per denudarle, bisognava fare una fatica del diavolo… era, come si dice?.. più la spesa che l’impresa… oggi le donne vanno in giro nude; il mondo si è riempito delle loro nudità; e a volare nel cielo ci sono più aerei che uccelli; gli animali - alcuni, perlomeno: i più privilegiati - prendono gli antibiotici e lo pasticche per la tosse mentre le piante crescono a suon di musica.” C’era davvero poco da obiettare a queste considerazioni. “Non credo sia solo questo” disse dopo qualche tempo lui, ritenendo di aver riflettuto abbastanza; e per una volta tanto sembrava sincero. “Ferma restando la voglia di tornare a sentirsi qualcuno, o nel peggiore dei casi qualcosa, forse al fondo della questione c’è davvero il bisogno fisico di raccontare qualche storia.”
“Che storia?”
“Ancora non lo so.”
Non lo sapeva ancora, difatti; per il momento c’erano solo la pulsione e la decisione presa.
Provò perfino ad immaginare come sarebbe stata la prefazione (una prefazione ci voleva!) per quel libro che non esisteva ancora, del quale non sapeva nulla ma che certamente - lo aveva deciso, ormai - avrebbe scritto.
Sarebbe iniziata con una dichiarazione di principio, aulica, di questo tipo: “Io non sono un narratore. Meglio: non lo ero. Meglio ancora: non avrei dovuto esserlo. Io sono un poeta che, avendo scritto una ventina di libri di versi, qualcuno perfino di una certa importanza, oso credere, e non essendosi visto riconosciuto il proprio lavoro, perché il lavoro dei poeti non è mai riconosciuto né socialmente né economicamente, ma rimane un lavoro negletto, ha deciso di dedicarsi momentaneamente a un genere più richiesto, qual è quello della narrativa. Dico e insisto sul momentaneamente; perché io sono e rimarrò prima d’ogni altra cosa un poeta, eccetera.” Sarebbe stata la sua rivincita.
Guardò l’orologio: mancavano pochi minuti alle undici. Fuori c’era il sole. Da qualche parte della casa - la monumentale casa immersa tra gli eucalipti - sua moglie stava finendo di fare le pulizie; udiva gli urti della mazza per lavare i pavimenti che cozzava contro i battiscopa o lo zoccolo di qualche mobile.
Quel rumore attutito, cupo, e il fatto che sua moglie non entrasse nello studio, rispettando così il suo bisogno di starsene solo, gl’infondeva una pacata sicurezza.
Per qualche attimo i rumori cessarono; la casa sprofondò in un silenzio quasi assoluto.
Lui alzò la testa dal foglio e volse lo sguardo in giro: i libri si accatastavano gli uni sugli altri, sul pavimento e sulle scansìe, con un disordine sul quale sarebbe stato inutile intervenire. Poi si mise a guardare il sole che di là dai vetri della finestra disegnava degli strani arabeschi nell’aria, delle trame misteriose, scintillanti e fluttuanti tra le foglie verde-oro dell’ippocastano.
Era come se vedesse il sole e le foglie e l’ippocastano stesso per la prima volta - o come se per la prima volta li considerasse da un altro punto di vista - forse più umano e, probabilmente, più accettabile.



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ultimo aggiornamento: lunedì 8 luglio 2002 10.11.43
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