Bollettario Bollettario Network 
versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
home / speciali / no alla guerra - sempre e comunque / l. malerba: della pace, della guerra

NO ALLA GUERRA - SEMPRE E COMUNQUE

Ciro Vitiello

Della pace, della guerra

Afghanistan 7 ottobre 2001


1) Che è pace, che è guerra? I lessici connotano a) che pace è “la situazione contraria allo stato di guerra, garantita dal rispetto dell’idea d’indipendenza nei rapporti internazionali, e caratterizzata, all’interno di uno stesso stato, dal normale e fruttuoso svolgimento della vita politica, economica e sociale e culturale”, b) che guerra è ”lotta armata fra stati o coalizioni per la risoluzione di una controversia internazionale più o meno direttamente motivata da veri o presunti (ma in ogni caso parziali) conflitti ideologici ed economici, non ammessa dalla coscienza giuridica moderna” (illuministica, aggiungo). Nel nostro tempo, tali definizioni trovano, teleologicamente, il loro estremo e terribile compimento storico, attraverso le grandi tragedie dei Balcani, nell’interminabile e sanguinoso conflitto tra Israele e Palestina. In cui le ragioni di lotta sono circoscritte a contendenti precisi, individuati, frontali, dei quali ognuno è teso a salvaguardare la propria sopravvivenza. Dunque siamo - così - nella logica più rigorosa della guerra tra due stati - con relative implicazioni. Qui stanno gli Israeliani (visibili), i Palestinesi stanno lì (visibili): le ragioni del conflitto, di qualsiasi tipo, si rappresentano comunque fondate, valide, sacrosante; e mentre si combattono essi possono ricercare le condizioni per convenire a una intesa, ad un accordo, che faccia da fondamento alla pace - che sancisce indipendenza e sovranità. Nelle posizioni apparentemente inconciliabili, nella volontà è il seme della pace. Ma se l’opposizione trascende i singoli stati? Se la forza della ragione è offuscata da passioni viscerali, da fanatismi fideistici? Se il nemico non è lì, o qui, ma può essere ed è in ogni luogo e in nessun luogo (invisibile)? Se vengono a confliggere valori supremi, quali Islam e Occidente? In tal caso, dentro i singoli valori, quali realtà si contrappongono? Le parole, mentre nel mondo telematico sono state avvilite a meri gusci vuoti, nel mondo delle galoppanti metamorfosi soffrono l’impotenza a non essere più capaci di rappresentare la storia ultima estrema che ci sta travagliando. Qualche anno fa Huntington asseriva circa il “clash of civilizations” che “la fonte prima di conflitto in questo nuovo mondo [globale] non sarà né essenzialmente ideologica né essenzialmente economica. Le grandi divisioni all’interno dell’umanità e la fonte del conflitto dominante avranno carattere culturale”. Questa visione è fallace. Perché in una profondità irrazionale si coglie, si può cogliere la molla conflagrativa dell’equilibrio mondiale, nell’intima ed oscura sfera del popolo, preparato fideisticamente a fini supremi (che sono sempre appannaggio di pochi). La guerra è l’orrore sommo, è la morte e la distruzione. La pace è la base della serena convivenza. In tale clima la solidarietà è lo stato necessario di comprensione, il rispetto delle libertà è la più alta forma di tolleranza. È la cultura - come maturità e giustizia - che può garantire il superamento delle incomprensioni e l’inutilità delle barriere ideologiche, sociali e religiose. Tuttavia la pace è dura a mantenersi, richiede l’impegno costante di tutte le nazioni, perché le risorse siano volte a combattere il male, le malattie, la povertà.

Ma che fare se una parte del mondo - qualunque ne sia la grandezza - si mostra intransigente, intollerante, irrazionale? Se vuole violare le libertà degli altri? Se attacca e distrugge i beni di un altro popolo, se colpisce i simboli di una civiltà? Oppure vuole espandere il proprio credo con la forza? Ammesso che sempre bisogna aborrire il ricorso alla forza, quindi alla guerra, che deve fare il mondo civile? Ricorrere alla pace? E quali sono gli strumenti che la pace può mettere in campo? Manifestare per le strade? Bloccare una piazza, un treno? La pace va perseguita sempre e comunque. Il motto è sublime in un mondo in cui tutti tendono a perseguire lo stesso fine, l’armonia tra i popoli. Purtroppo il giorno 11 settembre 2001 ha sancito una metamorfosi epocale: ha perforato la coscienza di interi popoli, ha messo a nudo quanto sia fragile e precario il mondo che ci si illudeva potesse essere ritenuto il migliore possibile. In una maniera impensabile, da guerra stellare, le Torri Gemelle vengono colpite, subito crollano. E’ l’attacco al mito di intangibilità di uno Stato, è l’assalto all’imperialismo, l’offesa al tempio del capitalismo? Sarà pure. Ma la gente comune ha perso la vita, come ora accade in Afghanistan. Se tuttavia ci atteniamo ai miti, perdiamo la coscienza, smarriamo la capacità di valutare. Allora dobbiamo affidarci alla ragione? E non è stato Pierre Bayle, un filosofo della tolleranza, ad affermare che alla fin fine “in religione e in morale la ragione non può edificare, ma solo distruggere”? Quando ragione e fede si identificano nell’apparente illusione di innalzare il vessillo della giustizia, allora proprio più feroce, più disumano si afferma il radicalismo irrazionale, che trova il suo sbocco nello sprezzo della natura umana, nell’affermazione della superiorità di una religione, che, priva del valore della comprensione, diventa fanatismo estremo. Quando fanatismo si coniuga a terrorismo, per cui si approda a un antropoterrorismo, allora siamo al limite del “non ritorno” dacché in questa visione il sacrificio mistico del corpo conduce direttamente a godere nell’altra vita. Siamo a questo punto da un lato. Dall’altro, sappiamo che uno Stato, quando prospera sullo sfruttamento delle risorse di altri popoli, in maniera non equilibrata, diventa insensibile e si culla nell’illusione della propria invulnerabilità. Ma un mattino si sveglia sul baratro di un orrore, allora reagisce servendosi del proprio potere militare per attaccare il nemico, metà visibile (Talibani) e metà invisibile (terrorismo). E dove siamo noi? Che ci è dato fare? Parteggiare? Oppure assumere altra forma di lotta? E come? Dobbiamo rifiutare la guerra, che è morte e distruzione; e dobbiamo affermare con tutte le nostre energie la pace, che è diritto e solidarietà, aiuto e libertà. E’ necessario conoscere degli altri il sentimento, la cultura, la fede per dare il rispetto; fare conoscere agli altri il nostro sentimento, la nostra cultura, la nostra fede per avere rispetto. Per una convivenza armonica e vitale. Ed è questo un processo che urge avviare subito: o questo si fa o precipitiamo verso uno scenario non dissimile dall’apocalisse.
Ciro Vitiello

    correlati:

:back_  :top_
ultimo aggiornamento: mercoledì 7 novembre 2001 1.05.52
powered by: Web-o-Lab