Bollettario Bollettario Network 
versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
home / speciali / no alla guerra - sempre e comunque / g. scalise: pensieri sulla guerra

NO ALLA GUERRA - SEMPRE E COMUNQUE

Gregorio Scalise

Pensieri sulla guerra

Afghanistan 7 ottobre 2001


CAPITOLO I

Il segreto è una cosa di cui nessuno parla, forse un tabù, probabilmente un flusso della nostra coscienza. Profondo e senza linguaggio. Tabù è un termine polinesiano che significa soltanto proibire, da qui il passaggio ad indicare il carattere sacro della proibizione (proibizione non motivata). Freud avvicinò il tabù alla nevrosi ossessiva (Totem e tabù). La pena per la violazione di un tabù è in rapporto con una disposizione interiore, il cui funzionamento è automatico. Il tabù violato si vendica da sé. Freud passa poi a parlare della punizione della divinità o della società stessa. Il tabù mantiene rapporti con la superstizione, con la religione e la credenza dell’immortalità dell’anima. Tabù sono tutte le persone, tutti i luoghi che possiedono una misteriosa proprietà. E’ una «forza pericolosa» che si trasmette per contatto, quasi per «contagio». Tabù è tutto ciò che è sacro e anche impuro e misterioso. Qui si manifesta un «aspetto della vita psichica il cui significato sembra veramente sfuggirci». Ci troviamo di fronte ad un enigma. Una certa intuizione dice a Freud che i tabù polinesiani non siano così lontani dalla nostra esistenza. Nel nostro caso si gioca d’azzardo. Si tratta nientedimeno che di spiegare il perché in sostanza sfogliando l’elenco telefonico a Vienna (nell’inverno 2000) si trovano nomi di molte provenienze (cechi, ungheresi, lituani) e perché nello stesso tempo non erano ben visti gli ebrei ieri e i nordafricani oggi. Secondo la psicanalisi americana degli anni sessanta, forse l’angoscia ha motivi meno storici (se così si può dire). Ansia e colpa venivano considerate d’origine nevrotica, come il risultato di uno shock emotivo o di una repressione d’istinti. Ma le repressioni sessuali, così importanti per la scuola freudiana, sembrano contare meno nell’America di quegli anni. Vi era una certa facilità nel soddisfare certi capricci e così si decise che l’angoscia sessuale era complessivamente superata e che la maggior parte delle turbe nervose derivava piuttosto da sentimenti di ostilità repressa. Il continuo «fare» senza un senso definito porterebbe, nella società affluente, ad ansia e insoddisfazione profonde. Naturalmente, l’America anni ’30 non è l’Austria 2000 e neppure i Balcani dopo la fine della Jugoslavia, come federazione. Ma è certo comunque che città come Vienna, Sarajevo, Belgrado, Innsbruck e forse persino paesini come Branau sono entrati nella modernità. In Austria il tasso disoccupazione è piuttosto basso e in molte parti della pur malandata ex Jugoslavia la vita non presenta difficoltà fondamentali. Dunque, perché l’ostilità, la guerra? Perché le persone si uniscono sotto il segno della persecuzione razziale? Perché la «pulizia etnica» è un atteggiamento che fa tanta presa? Una parola d’ordine così sordida, perché affascina ancora? Spesso gli eventi si mostrano nel grande e nel mostruoso per camuffare la loro elementarità. Qualcosa è sfuggito nella riduzione verso l’essenziale: il senso dell’enigma, un aspetto della vita psichica. Freud ha una teoria, costruisce spiegazioni del mondo. Ma nel tentativo di estendere un reticolo entro cui far impigliare un aspetto dell’enigma, la credenza dell’immortalità dell’anima, forse ci fa fare qualche piccolo passo avanti.

CAPITOLO II

Nella persecuzione razziale scatta uno speciale meccanismo, forse una «punizione automatica». Che cosa violano gli abitanti dell’Europa centrale quando devono entrare in contatto (contaminarsi) con altri soggetti etnici “diversi”? E’ possibile fare l’ipotesi di una sorta di guerra delle anime dissimulata sotto alibi ingegnosi o sociali (ci portano via il lavoro, possiedono tutta la ricchezza, vogliono sempre andare in Palestina, non si fonderanno mai con noi). Nella nostra sfera privata, noi non siamo più attori e drammaturghi, ma solo terminali di reti multiple (Jean Baudrillard, L’altro visto da sé, trad. italiana 1988). Secondo l’ipotesi che qui si cerca di delineare (tabù e segreto, violazione e violenza), il residuo antropologico e religioso esisterebbe. E d’altra parte le reti terminali non saprebbero costituirsi come indignazione e vendetta, sentimenti tutti ottocenteschi, certo, ma visibilmente residuali, per tutto il secolo scorso e l’inizio di questo. Anche risentimento, dunque, una serie di impulsi e di potenzialità ostacolate, qualcosa che bloccherebbe lo slancio vitale, con un ostacolo avvertito naturalmente come ostile.
Ma perché gli ebrei e non i cani da caccia o le volpi? Perché ora i colored e non gli scoiattoli che in tedesco hanno un nome tenero e inoltre abbondano nei boschi? E’ qui che in qualche modo tabù e segreto giocano la loro parte. Per l’antisemitismo, le correnti erano già in atto nell’800 e il nazionalsocialismo ha fatto il resto. E i colored? Formano un contrasto troppo vistoso con la neve e i ghiacciai delle montagne? Insomma, non sono ecologici dal punto di vista di un completo godimento estetico? E’ qui che l’enigma, come categoria del profondo e del flusso psicologico, prende corpo, costringendoci alle più imprevedibili ipotesi. Perché di certo c’è che una voce demagogica si fa interprete di un comune sentire, ma comune sentire e demagogo coesistono. Nell’inverno del ’44 Eichmann passa per i Rechnitz, sui confini orientali dell’Austria; guidava una colonna di decine di migliaia di ebrei. Nessuno vuole parlarne. Vuoto di memoria, amnesia storica? Le stragi della guerra sono tabù, è vietato parlarne o farne cenno. Una rimozione solida, di ferro, quasi come quei binari infernali. Quei treni che Eichmann considera semplici forme di comunicazione e di trasporto. Il libro della Arendt (Banalità del male) racconta di un processo straordinario e di un uomo almeno sconcertante. Le immagini del recente documentario del processo (tratto dal libro citato) mostrano un uomo normale, deciso a difendersi, accanito conservatore di una rimozione e di un segreto. Nella Germania del dopoguerra, scrive la Arendt, la gente è geniale nel sottovalutare il suo passato. La «spietata durezza» viene spesso chiamata Ungut, cioè un «non bene». A chiusura di un capitolo sulle deportazioni, la Arendt cita una circolare (1942) in cui la cancelleria del partito così si esprime: «E’ nella natura delle cose che questi problemi, sotto certi aspetti difficilissimi, possano essere risolti nell’interesse della sicurezza permanente del nostro popolo soltanto impiegando una «spietata durezza».

CAPITOLO III

E’ questione di un attimo, come, dicono, sia la morte. Ma in quel momento si deve scegliere e niente come la guerra divide gli uomini in due sezioni distinte. Quelli che la guerra la vogliono e quelli cui fa orrore. Esiste anche una zona intermedia ( cioè i giorni della guerra in Kosovo, dove i nostri leader hanno vissuto per 78 giorni) di chi non la vorrebbe, ma la fa. Come a dire: la vita umana è importante, ma solo fino a un certo punto. Gli altri - e non sono pochi - dicono subito di no e avvertono l’angoscia e l’orrore. Nel caso italiano anche la responsabilità. Luttwack ce lo ricordava spesso nelle trasmissioni televisive: voi italiani fate parte della Nato, anche voi bombardate e fate la guerra, i principali comandi Nato sono in Italia. Dove? A Napoli e a Verona. Non ci sentivamo da quell’orecchio. Noi non vogliamo, i nostri aerei sorvolano ogni tanto le basi, certo le abbiamo date alla Nato, ma gli aerei che partono non sono i nostri. Dallo schermo tv, la sera, a cena, i nostri pasti erano conditi dalla voce del giornalista della Rai Ennio Remondino che indicava le case in fiamme, i grattacieli squarciati. Strano, si pensava, le bombe hanno fatto grandi buchi, ma le città sono ancora in piedi. Poi, la processione dei profughi. La traduzione sovrapposta, incontrollabile. Mai un avvocato, un dottore o solo un veterinario, sempre contadini, povera gente. Racconteranno la verità? Qualche dubbio aleggiava, mentre i giornalisti davano le cifre, i numeri. L’esodo era biblico: a fare i conti il Kosovo era grande come la Lombardia, ma aveva almeno 100.000 abitanti per metro quadrato. La Bonino, i vari commissari, i funzionari, i soldati, i ministri in visita, i bambini, i vecchi, a volte le stesse scene ripetute con speakeraggi diversi, la distribuzione del pane. Non se ne poteva più. E non se ne poteva più neppure del terribile dilemma nel quale ci eravamo trovati. Stanno bombardando per evitare la pulizia etnica. Ma come, bombardare oggi, a fine secolo, la Serbia? rispondevamo trasecolati. Vuoi che Milosevic stermini tutti? Milosevic è Hitler, e se abbiamo sbagliato allora, oggi non possiamo sbagliare più. Baudrillard, a proposito della guerra del Golfo, parlò di guerra virtuale, pur con voragini e civili bruciati e stecchiti. Durante la guerra contro Milosevic, un uomo non cattivo, Massimo D’Alema, spiegava che in confronto allo sterminio attuato dal capo del governo serbo, 1.000 morti non erano granché. Forse non disse proprio così, ma le mani che si agitavano nell’aria indicavano qualcosa di simile ad una pesa. Condotti per mano dal pifferaio della morte del cielo, anche noi eravamo colpevoli e responsabili? Sì, visto che ci nascondevamo e inventavamo incredibili stratagemmi. Per motivi «giusti, umanitari», ci siamo trovati davanti a una scelta terribile: abbiamo scelto di stare con la Nato e le nostre mani si sono macchiate di sangue. Dopo aver resistito per oltre mezzo secolo, dicendo no al terrorismo e blindandoci nel privato, ecco le guerre a distanza, lontane. Ma quella della primavera ’99 è la prima volta in cui la nostra responsabilità è diretta. I motivi saranno stati insindacabili, ma che dire dei morti, dei trattori bruciati, del valore della solidarietà andato perso? Gli intellettuali contemporanei non sono cattivi né guerrafondai, ma hanno una certa vocazione alla furbizia: tendono ad evitare le seccature, come la riflessione sulla guerra. Resta il pacifismo, auspicabilmente non soltanto quello guidato dalla chiesa, perché - come ricordava Andrea Barbato in una delle sue ‘cartoline’, di cui era destinatario padre Turoldo, ad essere contro la guerra è la parte migliore della cultura laica. Eppure, tanti artisti laici, quelli che dovrebbero individuare la fenomenologia dell’aggressione, a proposito della guerra e durante il suo corso, tacciono. I momenti della guerra dovrebbero essere quelli in cui la voce degli artisti si fa sentire. Ogni vero artista detesta la guerra, a parte i casi di Hegel, dei futuristi italiani, di Celine. Blumemberg sostiene che in questo secolo, imitando la mistica, c’è stato un flirt eccessivo col nulla, col risultato di un rifiuto eccessivo della designazione. La guerra, punto zero e tabù, risulta impensabile. Ma quel momento irrazionale e drammatico le cui argomentazioni difensive non sono altro che forme di alibi e follia, vengono in realtà pensate e decise a tavolino da qualcuno. Si va in guerra perché viene detto di farlo, si recita una parte dove perfino il palcoscenico della propria anima è fatto di assenza e di vuoto. Qualcuno sente insorgere dentro di sé l’arcaico spirito di una la tradizione di guerrieri, un «sonno della mente» generato dalla forza della suggestione e dalla capacità di auto-allucinazione. In realtà, bisogna capire qual è il peso dell’immaginario, e perché diventa importante quando si tratta della guerra. Dei pezzi di ferro a motore partono da zone arate e pianeggianti, volano fino a raggiungere un obiettivo x per poi bombardarlo con missili o bombe che colpiscono case, persone, fabbriche. Un’azione che per giorni è continua, quotidiana. Ecco una descrizione delle guerre senza alibi, motivazioni, immaginazione. Progressivamente, gli intellettuali si sono distaccati dai momenti di decisione e forse l’ideologia di sinistra ha indebolito, per un uso troppo disinvolto, la forza e l’energia delle idee. Ci si è messi a cercare angeli, dei, personaggi del seicento e, naturalmente, denaro. In questi anni il linguaggio del narcisismo si è esibito in tutte le forme possibili. Le esistenze si sono conformate sull’imitazione delle classi ricche o su ciò che è opinione comune essere trend e ricchezza. Una corsa al vippismo che ha depauperato di ideali la sinistra.

CAPITOLO IV

Chissà se sono di aiuto le analisi dei polemologi, degli analisti e dei grandi descrittori della distruttività; se il tempo trascorso aiuta, o se occorre far finta di nulla e partire da zero.
Le guerre moderne sono ovunque: 15, 10, 20 focolai. Perché dunque andare alla ricerca di segreti e motivi, quando l’intero mondo non ha mai smesso di guerreggiare? L’Europa, che rappresenta il centro di una civiltà, può però fornire almeno gli strumenti di analisi di un fenomeno che appare indomabile nel tempo. E’ venuto il momento, per il vecchio continente, di lucidare l’argenteria argomentativa e culturale usata per comprendere e analizzare le guerre. Non si può continuare a chiamare Hitler ogni dittatore che si affaccia sulla storia, da Saddam Hussein a Milosevic. In un’intervista a Saddam Hussein, Moravia seppe far affiorare la pochezza dell’uomo e la sua somiglianza con altri funzionari della sua specie: sapeva, da grande scrittore, adoperare la cattiveria culturale, come mostra il necrologio ad Hemingway scritto nel ’61: «uno dei caratteri più significativi della letteratura americana moderna è l’incapacità di molti scrittori di oltrepassare, arricchire e sviluppare il mondo della loro adolescenza e prima giovinezza». Indicazione netta, sommaria. C’era nell’aria, in quell’articolo uscito sull’Espresso grande come un lenzuolo (oggi il testo è in L’uomo come fine, 1963 prima edizione) la condanna di tutto un atteggiamento e di un modo di vivere. Un po’ dispiaceva, leggendolo, ma molti americanisti, oggi, sarebbero più che d’accordo. Hemingway si trovò del resto sul fronte italiano. Vicino a lui, ma distante un mondo, ci fu anche Clemente Rebora, capace di dissociarsi dalla guerra e di scrivere parole di orrore, cosa che fu di pochi, in un panorama di scrittori interventisti.
La cultura di sinistra, almeno fino agli anni ’80, era riuscita a fare piazza pulita di molte cose. Forse l’effimero fu l’involontaria data dell’immersione nel caos. E oggi siamo ad una sorta di anno zero. C’è cibo in dispensa, ma bisogna saperlo scongelare e usare con le dovute cautele. Da tutti i punti di vista appare evidente l’irrazionalità della guerra. Se sull’argomento ci si rifà spesso al periodo nazista, è perché in quella camera ardente sono conservati parecchi segreti: molti sono ormai alla luce del sole, altri restano in qualche modo occulti. La cultura di destra di Furio Jesi ci regala ipotesi suggestive. Restano impresse le descrizioni delle «idee senza parole» e la mistica dell’azione inutile. L’azione che il discepolo deve compiere obbedendo ad oscuri maestri non è altro che una forma di addestramento. Il maestro sa che il discepolo compirà quegli atti per diventare un uomo della tradizione, ma il soggetto in questione è all’oscuro di tutto. Jesi ipotizza che alcune imprese terroristiche possono essere state compiute da discepoli di questo tipo, strumentalizzati successivamente da chi aveva interesse a farlo. Ma la pedagogia dell’inutilità è sicuramente un’indicazione. Si compie un’azione il cui senso è oscuro, si obbedisce e basta, solo i maestri conoscono le finalità.
La guerra non rientra nel novero delle azioni inutili? L’azione inutile viene compiuta da non iniziati, cui in sostanza si offre qualcosa per salire la scala della consapevolezza. Ma quella sensazione di ineluttabilità che deriva da una volontà persuasa e spezzata, quel senso di irrinunciabile catastrofe che è la guerra, da dove trae tutta la sua nera vitalità? Ordine e ragion di stato, si potrà rispondere. L’idea dell’altro come essere vivente e intoccabile viene rimossa a favore di un impulso ostile. Ancora la guerra giusta; naturalmente, tutte le guerre sono giuste, anzi, perfette.

CAPITOLO V

Esiste una persuasione che va oltre le parole e gli argomenti? Per le merci era stato inventata la persuasione subliminale. E per la guerra? Ammettiamo un attimo che si sia esagerato a proposito di Milosevic; gli interventi a favore della guerra di tutto il mondo intellettuale non lasciano almeno sbigottiti? E ormai, quando si dice tutto il mondo, significa davvero tutto il mondo. Non è possibile che personaggi del calibro di Susan Sontag non abbiano realizzato cosa stavano scrivendo e non abbiano compiutamente analizzato gli argomenti a loro favore. Dunque, la guerra era giusta? Dato che non è possibile polemizzare con tutto il mondo, seguiamo l’incerto e occulto sentiero di una persuasione oscura. Questa persuasione sembra trovare, a parere di Guido Rampoldi (recensione dell’8/2/2000 su Repubblica) una chiara esemplificazione nella prefazione di Ezio Mauro al Diario da Belgrado di Biljana Srbljanovic, 28enne corrispondente per la Repubblica nei mesi di guerra: «Biljana riusciva a rendere una lettura del conflitto intelligibile anche a chi sosteneva l’ineluttabilità dell’attacco Nato ma ne ammetteva il fardello etico. A chi rifiutava le scorciatoie del pacifismo, ma non chiudeva gli occhi davanti alla complessità dei problemi posti dall’intervento occidentale». In sostanza, le posizioni sembrano essere quelle di un sì alla Nato (ma la cosa è eticamente pesante) e di un no al pacifismo facile (ma i problemi sono grossi) .
Viene subito in mente che, una volta terminata la guerra, le distruzioni restano e i problemi etici se ne vanno. Per quanto tempo si sarebbe dovuti restare «eticamente appesantiti»? Troppo facile rifiutare aprioristicamente le guerre: ed ecco che si parte per il Paese dall’etica pesante. Non esiste una scienza dei segni tale da poter chiarificare i messaggi dell’inconscio e tutto ciò che in qualche modo non si razionalizza: le considerazioni sull’impensabile appartengono all’immaginazione, allo sforzo, cioè, di nominare, rischiando il ridicolo, i tracciati impersonali e personalissimi che conducono gli uomini a farsi persuadere dalla guerra.
Tali richiami apparterranno a un nostro retaggio, come la fame e la sete? Vita istintiva, che quasi sempre si traduce in atti riconoscibili e concreti(come bere se si ha sete), ma che di fronte a un tabù può prendere strade diverse e difficili. Blljana racconta di una festa all’Ambasciata dove vengono suonate musiche di Kusturica. Alcune signore italiane si alzano e ballano, sicuramente per rallegrare l’ambiente, ma gli italiani non sanno che quelle musiche hanno fatto da sottofondo ad azioni di pulizia etnica. L’atto del danzare sarà stato sicuramente scusato dai serbi presenti, e tuttavia proprio quel gesto indica un attimo di gioia selvaggia di fronte ad azioni di distruzione. Il rapporto inconsapevole (e casuale) parla terribilmente chiaro.
La pedagogia della guerra passa per mille atti inconsapevoli che non sono solo quelli dei bambini che giocano alla bande o con sofisticati giochi di guerra virtuale, ma anche attraverso le pacifiche aperture alla vita. Guerra e violenza diventano tabù nelle società civili, ovvero oggetto di costante rimozione. Di fronte al tabù, il territorio del rimosso trova strade d’altro tipo, costruendo ragionamenti rigorosi e magari perfetti, quasi logici. Su Lettera internazionale n.22 Susan Sontag traccia un profilo molto netto della situazione, dalla Bosnia al Kosovo. Slobodan Milosevic, a suo parere, andava fermato nel ’91, quando cominciò a bombardare Dubrovnik: «Non tutte le violenze sono ugualmente riprovevoli. Non tutte le guerre sono ugualmente ingiuste». La parola, dunque, è stata pronunciata. Esistono guerre giuste e guerre ingiuste. Giusta è quella che risponde alla violenza di uno Stato, violento contro una parte dei suoi cittadini. «Il male - dice ancora Sontag - esiste nel mondo e per questo ci sono guerre giuste». Biljana Srbjanovic è servita.

CAPITOLO VI

Se Milosevic andava fermato nel ’91 e l’Europa non reagì al bombardamento di Dubrovnik, bisogna anche ricordare che proprio in quell’anno avevamo assistito alle mirabolanti imprese americane della guerra del Golfo. E in effetti, molti reagirono allora, mentre c’è stato uno strano silenzio sui fatti dell’ex-Yugoslavia. La sinistra, dice la Sontag, è contraria all’America perché in Europa “l’egemonia della cultura popolare americana non potrebbe essere più totale”. L’Europa, commenta ancora la Sontag, proprio perché “nata per gli affari” è incapace di rispondere ad una minaccia come quella di Milosevic. E così, da una parte c’è un’Europa che considera un oggetto da museo il nazionalismo, mentre in un'altra parte (Europa sud orientale) nazionalismo e guerra sono carte da giocare. Naturalmente, il discorso eurocentrico non è sufficiente: la questione del Kosovo resta, e con esso il dilemma della guerra e dell’intervento. Paolo Rumiz (in Le maschere per un massacro ) è molto esplicito nell’indicare che le questioni nazionali, etniche, altro non sono che un alibi per un gruppo di uomini senza scrupoli. Il bene è credulone, dice Rumiz, il male più astuto. “Siamo vittime della pseudo-evidenza della guerra - scrive Bouthoul in La guerre, 1953 - la mentalità magica, scacciata dalle scienze fisiche, si è rifugiata nelle cose del sociale”. Ed è proprio questa magia che gli analisti della distruttività chiamerebbero aggressione maligna, a spingere ad azzardare ipotesi circa un residuo religioso alla base di una guerra tra anime, o a proposito dell’esistenza di un linguaggio subliminale dove la guerra coesiste con la pace. Esiste un segreto, una comunicazione di istinti inconfessabili? Una sorta di argomentazione incantatoria? Ne è un esempio il discorso terribile di Himmler a Posen nel ’43: “Sta scritto nel nostro programma: sterminio degli ebrei, e così facciamo” (Fest, Il volto del terzo Reich, 1963 ) .
Gli sterminatori, come i serial killer, lavorano in silenzio. I bambini giocano alla guerra, noi adulti ci rilassiamo la sera con un bel giallo, violento, spesso con mostri o vicende atroci. Il tutto entra nel nostro parco giochi e in chissà quale ripostiglio della mente va a finire. E questa potrebbe essere un’ipotesi: la riserva di violenza raccolta dalle immagini. Un razionalista non prenderebbe mai in considerazione l’idea del messaggio segreto: un’analisi del genere, non appartenendo al mondo esplicito dei segni, verrebbe indicata come insensata.
“Non dovremmo mai accennarne” dice Himmler, sempre nel discorso di Posen: ma si può parlare, allora, di una sorta di alfabeto della guerra, espresso senza segni e senza altre indicazioni? Perché si ripetono nella vita della pace comportamenti che confinano con quelli della guerra? Perché non si mettono al bando, ma si accettando determinati atteggiamenti aggressivi? Per esempio, l’Italia: nazione a volte ipocrita, metà cattolica e metà miscredente, post-comunista in parte della sua storia recente, deludente rispetto ai livelli che pur potrebbe esprimere, e anche un po’ spiona stando alle ricerche sull’Ovra, per lunghi periodi non ben governata, dovrebbe essere un serbatoio di razzismo e di invito alla guerra. Ma il razzismo, anche durante le leggi razziali, non fu sentito, e quanto alla guerra, salvo una piccola percentuale di cittadini, gli italiani non sono guerrafondai. E’ vero, ci fu il terrorismo negli anni ’70. Ma sono pur sempre minoranze, accese da dibattiti importanti sulla rivolta, la rivoluzione, il marxismo. La Francia forse è stata più elegante, teorica e celebre: da noi la questione paralizzò generazioni intere e ancora oggi non si è spenta del tutto. La destra fu tristemente attiva negli anni di piombo, ma la maggioranza del Paese non era d’accordo né sui treni squassati dalle bombe né sui giornalisti azzoppati.
Scrive Jean Marie Domenach ne La propagande politique (1953): “Molti sintomi indicano che una gran parte delle popolazioni europee manifestano disgusto per tutto ciò che evoca la propaganda. Il disgusto della propaganda è certamente uno dei fattori essenziali dell’astensionismo elettorale. I partiti farebbero bene a non fare troppo conto su una facoltà indefinibile come l’oblio presso le masse; è tempo di ricordare ai partiti che la propaganda non è soltanto l’annuncio di un programma attraente che non impegna niente e nessuno, ma che le risorse della menzogna finiscono per esaurirsi”. La menzogna nuoce alla propaganda, afferma animosamente Domenach, e se il mito le è essenziale, i fatti non lo sono di meno. La propaganda si nasconde dietro supposte “novità” e dietro le statistiche. Ma un dispaccio di agenzia può mentire (si veda il caso di Timisoara) e dunque è sempre più difficile distinguere tra propaganda e informazione. Intanto, occorre notare che il disgusto cui accennava lo studioso francese comincia oggi ad avere pieno effetto e la disaffezione elettorale è un sintomo allarmante ed evidente. Ma allora, perché non nascono un vero disgusto e un vero contrasto per la guerra? Risposta, quella inquietante che conosciamo: perché possono esistere guerre giuste. Ma si potrebbe rispondere a Susan Sontag che la guerra in Kosovo è scoppiata a dispetto dell’Europa che si considerava vaccinata contro mali trascorsi e nati proprio dal suo cuore e non supponeva nemmeno lontanamente insorgenze ed emergenze come quelle tra albanesi e serbi, o tra bosniaci, serbi e croati.
Fromm (Anatomia della distruttività umana, 1973) cita l’osservazione di un biografo di Himmler: “Quello che ci turba… non è solo la posizione di Himmler come capo della polizia del Reich, ma lo sterminio di molti uomini. L’infanzia e la gioventù di Himmler non danno alcuna risposta diretta a questi interrogativi”. Avendo riportato questo passo, Fromm commenta che per lui non è vero; il sadismo di Himmler era profondamente radicato nella struttura del suo carattere “parecchio tempo prima che egli avesse l’opportunità di esercitarlo su scala così colossale”. Fedele al suo assunto, Fromm scova nella vita di Himmler gli aspetti salienti che avrebbero dovuto rivelare la patologia di questo individuo. Ma appare più convincente l’analisi fatta su Hitler nei capitoli precedenti; quella su Himmler, a detta dello stesso Fromm (fatta con pochi documenti), resta più vacillante: e il quadro clinico non offre grandi appigli. Himmler, dice con secco realismo Fest in “Il volto del terzo Reich” (1963) , è un’amalgama di settarismo e normalità , di fanatismo e razionalità amministrativa. L’analisi confrema l’impressione della banalità del male, come fu per l’altro feroce impiegato del Reich, Eichmann.

CAPITOLO VII

Come si fa a pensare qualcosa sulla guerra senza dare per scontato ciò che tutti finiscono per accettare? La guerra è una specie di epidemia sociale - dice Bouthoul - ma aggiunge che è prematuro trarre conclusioni prima di avere studiato a lungo e pazientemente il fenomeno guerra. Le nostre idee preconcette, che ci portano ad avere familiarità con la guerra fino dall’infanzia, ci danno l’illusione di saperne già abbastanza. Sembra che un’ostilità inconscia e generale si opponga ad ogni ricerca e, soprattutto, alla desacralizzazione della guerra. Gli uomini non vogliono essere privati delle loro emozioni più forti. Pulsione distruttrice, la guerra si propone come una migrazione di massa nell’al di là. Morte dell’altro, la guerra è il sentimento della necessità di un periodo di violenza. “Prima di essere un’azione è una convinzione. Alla volte è anche una semplice rassegnazione ad una calamità che si considera come inevitabile (Elements de polémologie, 1951) . La nozione di frustrazione, prosegue Bouthoul, quando si tratta di impulsi di guerra rimanda alle credenze dei gruppi. “Tutta una nazione può ritenersi frustrata perché non ha il Sacro Graal”. Gli impulsi di guerra - seguendo Bouthoul - provocano l’attivazione dei torti (réactivation des griefs). Come quando si riscopre periodicamente un proprio nemico costante (héréditaire). Un altro elemento deve essere aggiunto al vocabolario invisibile, all’alfabeto senza alfabeto e segni, a questa sorta di voce della guerra che vibra fra gli uomini e suona il suo piffero come un dio sconosciuto. E’ difficile credere, sintetizza Bouthoul, che l’aggressività (qualunque sia il carattere epifenomenale della sua struttura cosciente) non abbia un fondamento strutturale più solido. Non si può ammettere che sia il solo, fra tutti i fenomeni, senza relazioni e legami. Il solo, dunque, che partecipa di un “hasard intégral”. Ed è proprio da questo hasard intégral che ci si è permessi di formulare ipotesi improbabili, tese a gettare almeno una rete verso il fenomeno: l'alfabeto invisibile, la voce nascosta, la guerra di anime come residuo delle guerre di religione e, su suggerimento di Bouthoul, la forma della latenza. Già questa formulazione, pur nella sua manchevolezza, ha una sua forma rassicurante: nominare le cose prelude a una loro definizione migliore.
Ma ecco un episodio che può far dubitare di tutto. Rumiz nel suo libro lo definisce “capolavoro di abominio”. Fra l’11 e il 15 luglio ’95, ottomila maschi musulmani vengono massacrati dalle truppe del serbo Mladic. E’ il più spaventoso massacro in Europa dopo il 1945. La notizia arriverà parecchi mesi dopo. Il piano di spartizione che diverrà il piano Clinton prevedeva l’assegnazione di Srebrenica ai serbi: a maggio era stato proposto il via all’evacuazione. Ma essendo la Serbia passata ad un’azione di guerra, la diplomazia internazionale lancia l’ordine di dimenticare il patto. Ridurre la Bosnia a una storia di morti - incalza inesorabilmente Rumiz- è deliberata volontà di non capire. Insomma, complicità con gli assassini. Tutto il libro è un atto d’accusa contro l’accecamento della stampa, del pubblico televisivo, delle diplomazie e dei potenti. Fino alla domanda: con quali mezzi una minoranza armata è riuscita ad imporre uno scontro sanguinoso ad una maggioranza che non lo voleva?
Nulla sarebbe stato casuale, tutto pianificato, compresa la pulizia etnica, “in un tunnel di maniacale dietrologia”.

%

Riaperti i giochi della riflessione, ancora una volta i fatti di Srebrenica restano. La nostra mente, però, tende a rimuoverli: riuscire a fissare la violenza per poterne individuare le cause anche in tempo di pace risulta un’operazione non tollerabile. Chi compie il gesto di eliminare l’altro non ne ha presente la fisicità e la forma. Per eliminare degli uomini occorre regredire a fasi in cui l’altro non è presente in noi neppure come immaginazione e immagine. Sostengono molte pedagogie della guerra: si tratta di entrare in un tunnel, quello dell’atrocità.

CAPITOLO VIII

Nel terzo mese del 2000 si registra il lamento dei giornali: la guerra è stata inutile, non bisognava farla. Non tutti i quotidiani italiani sono stati “bombaroli”, ma pochi hanno brillato per ricerche sulle cause del conflitto, sulla sua utilità e sulla sua evitabile inevitabilità. E’ stato dato campo libero agli intellettuali di tutto il mondo, i quali sono intervenuti brevemente, con fastidio e andando spesso contro le loro convinzioni. Chi ha letto Timebends (titolo italiano, Svolte, 1988) sa che Arthur Miller non ama le guerre, definisce “guerra civile” la guerra europea e osserva che l’Europa si è autobombardata. Eppure il suo intervento su La Repubblica non lascia trasparire nulla dei sentimenti di un tempo. E’ successo qualcosa era il titolo di un romanzo di Heller, dopo il suo Comma 22, vero e proprio poema contro la guerra, venato di ironia se non di travolgente umorismo. Se un aviatore non vuol volare, per il comma 22, può chiedere di non farlo, ma proprio per questo è sano di mente e in possesso di tutte le sue facoltà e quindi la licenza è più che giustificata, ratificata. In qualcosa di simile a questo comma 22 si trova chi cerca di rompere l’accerchiamento di assenso sulla guerra del Kosovo. Non siamo bombaroli, dicevano gli interventisti, ma non si può fare altro. Non si è per i massacri di Milosevic, potrebbe rispondere il non interventista, ma è preferibile non replicare nello stesso modo.
Sconcerta l’accettazione della normalità dell’intervento di guerra, l’accettazione di una sorta di operazione chirurgica, necessaria, guerra giusta.
“Se il soggetto capisce - disse parlando ad una tavola rotonda lo psichiatra David Cooper - allora cessa di volersi tagliare le braccia; sceglie piuttosto di voler fare qualcosa di completamente diverso”. Lo specialista, secondo lo studioso, non libera il malato dalle voci, piuttosto contribuisce a farlo fuori: mentre si tratterebbe di capire quale sia la verità delle voci che gli parlano. L’opinione che dice “tu sei pericoloso per gli altri e per te” è il messaggio che il malato recepisce e trasforma in voci che gli ordinano l’autopunizione. Anche se questa interpretazione anti-psichiatrica può andare incontro a diverse contestazioni (“Allora, tutti i perseguitati da mania omicida possono essere compresi in questi termini sociali?” obietta subito lo specialista della situazione sovietica a proposito di malattia e repressione Victor Fainberg) si avverte che contiene del vero. Siamo di fronte a una specie di “introiezione dello sguardo”, dell’ordine esterno, della riprovazione. Buona parte della cultura del secolo scorso ha cercato di mettere in guardia dalla pretesa di un io capace di essere sempre compos sui. In realtà, molto di ciò che pensiamo appartiene al conformismo o all’opinione pubblica. Il “potere” lavora al dettaglio, in modo microfisico, infiltrando ogni piega della società, scriveva Foucault. Chi lo rappresenta sono i “tutti”: medico, infermiere, burocrate, ufficiale, poliziotto, poeta, rappresentante. Il potere si diffonde attraverso le pratiche che coinvolgono il corpo e lo spazio. Suddivisione minuziosa, scrive Foucault, che si insinua attraverso la disciplina. “Ogni società ha il suo regime di verità …, tipi di discorso che accoglie e fa funzionare come veri… le tecniche e i procedimenti che sono valorizzati per arrivare alla verità”. (Microfisica del potere, 1977). Seguendo le indicazioni della polemologia (ancora Bouthoul) Foucault delinea un modello militare di interpretazione della politica. La guerra è una spiegazione del mondo. E l’altra sua faccia, si può aggiungere, è il potere. Foucault racconta, sempre nello stesso libro, di una donna che gli dice: “Ho quarant’anni, un giorno sono stata messa in prigione a pane e acqua”. “la prigione - continua Foucault - è il solo luogo in cui il potere può manifestarsi allo stato bruto, nelle sue dimensioni più eccessive e giustificarsi come potere morale”. Ma se sostituiamo alla parola “prigione” la parola “guerra”?
Money-Kyrle chiama processo maniacale il processo attraverso il quale il bambini si identifica con l’“oggetto cattivo”, cioè il nemico. Il processo maniacale del bambino è per l’autore il prototipo della psicologia di guerra dell’adulto. I conflitti fra i gruppi si trasformano in conflitti bellici, i contrasti tendono ad essere trattati come radicalizzazioni distruttive. Una specie di follia innata spingerebbe l’uomo alla guerra, una sorta di angoscia porterebbe l’europeo contemporaneo di Money-Kyrle (Psicanalisi e politica) ad una continua sfida nei confronti del mondo dal quale si sente sfidato. Molte teorie demistificanti sulla guerra si basano sul fatto che si teme l’altro e si proietta su di lui il male. Ma quando l’altro il male lo fa davvero? E’ stato il concetto di identità alterata a fornire a Laing e a Esterson la guida per la lettura della schizofrenia. L’altro incrina l’asse su cui si basa l’identità, l’immagine portante. Se il disorientamento prodotto dall’alterazione dell’identità fa dubitare di se stessi in modo radicale, ecco che può sorgere la follia.

CAPITOLO IX

Tutto è questione di persuasione, di voci interne, incontrollabili, quasi di superstizione. Antigone contro Creonte, società matriarcale contro quella patriarcale, come interpreta Fromm (Linguaggio dimenticato, traduzione italiana ’62) sulla scorta delle grandi riletture di Bachofen. L’enigma della guerra è simile a quello della Sfinge? “In se stesso l’enigma - scrive Fromm - per essere risolto non chiede altro che un po’ di intelligenza, serve soltanto a velare il significato latente della domanda, cioè l’importanza dell’uomo”. Importanza dell’uomo nella concezione matriarcale contro lo Stato, le leggi, l’obbedienza. Edipo vince il suo primo round perché dimostra alla Sfinge con la sua risposta che egli appartiene allo stesso mondo rappresentato da Antigone, l’espressione dell’ordine matriarcale. Confronto fra ordini diversi, Giocasta resta sullo sfondo, incesto e complesso messi seriamente in dubbio come elementi della costruzione del celebre complesso. La tragica rivalità tra padre e figlio viene contestata dalla psichiatria americana, la costruzione del complesso, pur con elementi di grande fascinazione, rivela lati manchevoli.
Si cerca qui l’opposto di ciò che cercava Freud: la riduzione ai minimi termini di una pulsione e del suo mascheramento. Quando una grande suggestione afferra gli animi, persuade le persone con le buone o con le cattive alla guerra e solo qualcuno parla di “sporca guerra”, la maggior parte dell’opinione pubblica si conforta nell’idea di un’azione necessaria. Certo, le persone obbediscono ai governi, ma le democrazie degli anni ’99 sono le democrazie affermatesi. I giochi si sono fatti difficili proprio perché sono poche le zone d’ombra dove giocare all’imbroglio. I cittadini hanno conoscenze e consapevolezze a macchia di leopardo, eppure la percezione della non violenza è ancora lontana. Perché nei periodi di pace non si intensifica il lavoro contro la guerra, attribuendo a questo terribile fenomeno la sua importanza? Perché non considerarlo alla stregua di una calamità naturale o una malattia, che prende gli animi degli uomini e li trasforma? Se un’intera nazione dice no al governo (ma perché i governanti non si mettono anche loro dall’altra parte?) non sarà facile imporre la sua volontà. La consapevolezza attuale affiora e indietreggia, si coagula e non riesce a rompere le maglie del potere, anche perché il nuovo patto non è di forza, ma basato sul consenso. La consapevolezza della massa cresce fino a un certo punto, poi forse implode, non trovando sbocco.
E poi gli Stati (si pensi agli Stati Uniti) sono ancora organizzati in modo da avere una macchina da guerra, o in sonno o in funzione. Il punto lontano nella coscienza, la pulsione a uccidere, fa forse parte della nostra costituzione e dei nostri sogni, ma basta un certo battage pubblicitario a richiamarla in azione.
Il problema delle democrazie, quando entrano in guerra, è mascherare con nuovi miti la reale povertà della situazione. Il facilmente evitabile non viene evitato, anzi, viene innalzato a livello di destino ineluttabile, di giusta missione. Senso antico, totemico, del male: capacità dei governi di fare leva su residui antropologici: ecco come si gioca alla guerra. Gli analisti dicono che in alcuni uomini costretti alla guerra esiste un senso di colpa e di successiva elaborazione del lutto. Qualcun altro mostra una lealtà ossessiva verso ogni autorità (Money-Kyrle li chiamaa “autoritaristi”), proiettando i sensi di colpa sul prossimo. Moralità disturbata? Tutta la Germana della seconda guerra mondiale fu un caso del genere?
Derek Parfit nel suo Ragioni e persone (traduzione italiana ’84) parla di una prospettiva riduzionista. L’identità personale non è importante, anzi, liberandosi da questa preoccupazione l’uomo diventa, per così dire, più leggero.
Ma questa identità limitata, forse un buon suggerimento per la vita civile, vale anche per la guerra? Le colpe e le elaborazioni collettive del lutto possono mai essere deboli e spersonalizzate?

CAPITOLO X

La guerra non ha verità. Il segreto del suo segreto è che non ce l’ha. Qualcuno dà gli ordini e qualcun altro li esegue. Forse Himmler si trovò dentro a una situazione e, da buon “autoritarista”, cercò di esprimersi al meglio. Esiste una forma di scelleratezza che, quando non trova ostacoli, giunge fino alla fine del suo percorso. E’ incredibile pensare che alcuni uomini violino il diritto di esistere di altri uomini, che alcuni uomini - cioè - non si rendano conto che la vita è una e insostituibile. Ma la storia ci dice che è proprio così.
Nel nostro tempo le democrazie esistono, ma ondeggiano tra trasparenza e autoritarismo. Ogni epoca vede inoltre nuovi arrivati che non sanno nulla e se non trovano persone che le informano su se stesse e la storia, magari vanno a cercare la verità nei miti e nelle leggende, o addirittura non si preoccupano di cercarla.
Nemmeno la violenza fa eccezione alla regola del day by day: le notizie durano un giorno, nessuno ha chiesto altre bombe sulla Serbia quando sono cessate le ostilità. Ubbidienti, abbiamo dimenticato. I soldati americani sono tornati a casa con sollievo. I pugliesi hanno ripreso a pensare al turismo. Anche le bombe cadute nel lago di Garda si sono sciolte come caramelle: c’era altro da pensare, i referendum, le riforme, la benzina.
I cieli sono liberi. Gli aeroporti funzionano per il traffico normale. Tutto è tornato alla normalità. La latenza, la morale, la guerra giusta, Milosevic, le marce, le portaerei… dove sono andate a finire? E l’istinto sadico dell’uomo? Come nel libro di Derek Perfit, “identity does not matter”, l’identità personale non importa. Come non importano la coerenza, il ricordo, la solidarietà, la pietà per gli altri, il rimorso per i caduti, il senso di responsabilità, le modificazioni del nostro sentire, il chiedersi se è stato giusto farlo, se ci siamo opposti a sufficienza. Niente di niente, identità e ricordo non contano. Disumanità degli uomini, stadio tribale del XX e del XXI secolo? Questi pensieri sulla guerra terminano con un interrogativo.

    correlati:

:back_  :top_
ultimo aggiornamento: sabato 3 novembre 2001 6.57.21
powered by: Web-o-Lab