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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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NO ALLA GUERRA - SEMPRE E COMUNQUE

Edoardo Sanguineti

L'educazione civica vale bene una guerra

l'Unità, ottobre 2001


È sabato, 13 ottobre. Sfoglio i giornali. Eccomi qua, davanti al Corriere della Sera . In prima, il grande titolo: «Primo caso di antrace a New York». Naturalmente, ero preparato ampiamente, dal-le informazioni televisive, all'orribile notizia. Ma ritro-varsela lì, sbattuta in faccia con dura evidenza, non è cosa di piccolo effetto.
Per fortuna, come è noto, c'è la provvidenza. Lì di fianco, in apertura, posso leggere un altro titolo: «Ma all'economia può andar bene». Non si discorre di car-bonchio, naturalmente, ma di guerra. Ma anche il male-detto bacillo, può rientrare nel giro di un ragionamen-to che, con un eccesso di cautela interrogativa, si espri-me, sempre con discreta evidenza titolistica, così: «Le spese militari meglio dei tagli alle tasse?» La risposta è positiva, ben inteso, anche se onestà di scienza econo-mica vuole che assuma una meditata forma problemati-ca. Santi numi, non sarà oggi che si svelano i segreti affaristici delle imprese belliche. Ma un po' di sano realismo è utile che affiori in momenti come questi, inclinati sconfortevolmente verso il più nero pessimi-smo. È così che, con vera competenza e chiare argo-mentazioni, Francesco Giavazzi spiega come, essendo da un anno ormai l'economia americana (e nostra) sull'orlo di una recessione, una via di salvezza si è trovata, per un po' ancora che nei famosi tagli dei tassi di interesse, nell'ostinatissima spinta ai consumi delle famiglie statunitensi (e nostre). Ma, dopo l'11 settem-bre, è davvero cambiato tutto. A salvare l'economia Usa (e nostra), provvederà la guerra, finalmente. Ben altro, infatti, è quanto può derivarci come «effetto delle spese militari». Naturalmente, questo si proclama, non badando se «spiaccia o no». E, non occorre dirlo, «al di là di qualsiasi considerazione eti-ca». Che è un lucido richiamo al fatto che g li affari sono affari, e che la scienza economica, se scienza ha da essere, non bada, non diciamo a parente ideologie, ma a impertinenti considerazioni morali. Qui, non voglio indugiare sul nudo calcolo e sul nudo interesse, ma devo pure rammentare che uno studio recente di Oli-vier Blanchard e Roberto Perotti insegna che «un dolla-ro di spesa del Pentagono non solo fa crescere la do-manda nel momento in cui viene impiegato, ma ha un forte effetto moltiplicatore: dopo un anno il Prodotto interno lordo (Pil) cresce più del doppio: 2,43 dollari. E l'effetto dura nel tempo».
O ra non voglio essere più realista di una schie-ra di monarchi dell'economia, ma investire in una guerra al terrorismo che si proclama, per definizione, interminabile, o poco ci manca, è cosa che può compensarci di molte efflizioni. O come scrive sempre Francesco Giavazzi: «È possibile quindi che lo choc della guerra sia, alla fine, una buona notizia alme-no per l'economia».
E l'esperienza insegna pure qualcosa: «Fu così al-l'inizio degli anni Quaranta, nel 1950 (Corea) e, più tardi, alla fine degli anni Sessanta (Vietnam)». Ora, «creare domanda attraverso le spese del Pentagono è certamente assai diverso e meno augurabile di una situazione di pace, in cui sono i consumi a far crescere l'economia. Ma questa è, purtroppo, la realtà». E non basta: «Oltre il 10% delle spese militari americane fi-nanzia ricerca e sviluppo: una notizia doppiamente positiva per le imprese che operano nei settori tecnolo-gici, i più colpiti in questi mesi».
A la guerre comme à la guerre . Che è bella, ma scomoda, si sa. Scomoda, ma vantaggiosa. Anche pedagogicamente, se Barbara Palombelli, sempre qui in prima, annuncia che alfine «A scuola torna (forse) l'educazione civica». Parigi vale una messa, ma l'educa-zione civica vale una guerra: «La crisi mondiale può diventare una grande occasione per la scuola italiana», perché «sta diventando una pesa di coscienza colletti-va, sociale», e la scuola «ritrova il suo vero ruolo», che è «la guida della formazione civile dei giovani», con gran-de sollievo delle famiglie, poverette, ecc. ecc. Ancora uno sforzo, e guardiamo sempre all'Ameri-ca: «Giuramento in classe "Siamo fedeli agli Usa"», nelle elementari al di là dell'Atlantico (Ennio Caretto, pag. 16). Non senza un dollaro in dono per un bambi-no afgano, ben inteso.


Edoardo Sanguineti

Tra Naomi Klein e Alessandro Manzoni

l'Unità, agosto 2001


U n mio vecchio amico, che si proclama, da buon europarlamentare verde, anche vecchio ambientalista e vecchio pacifista (se non altro, perché la guerra, oltre che ucci- dere, inquina), è intervenuto sulla Stampa del 9 agosto con un articolo che reca in titolo (probabilmente editoriale, co- me accade per solito): Multina- zionali Black bloc. Bel titolo, fat- to anche più chiaro del soprat- titolo: «Tirar sassi è deplorevo- le, ma c'è violenza anche dal- l'altra parte». L'altra parte non è la polizia. Sono i G8, si badi. Io non sono ambientalista e non sono pacifista (e nemme- no, ad ogni buon conto, inqui- nofilo e guerrafondaio). Sono vecchio, questo sì. E ho letto con piacere le parole di Celli: «È vero, a Genova, da una parte c'è stata violenza, ma dall'altra, da quella della multinazionali della globalizza- zione, la violenza esercitata su tutti è da tempo ben più gran- de, estesa all'intero pianeta». Segue dalla prima Per illustrare il suo pensiero, il Celli, che è uomo di scienze e di lettere, ad un tempo, nonché una sorta di dotta superstar televisi-va, ricorre a Manzoni, quando costui de-nunciava, romanzescamente discorrendo, che violento era don Abbondio, anche se, nella memorabile scena del tentato matri-monio per forza, violenti sembravano esse-re, e non erano, i due promessi. «Orbene, tutti sanno - concludeva il Celli - che le multinazionali sono gli occulti burattinai della globalizzazione, ed è ormai evidente che i loro metodi non sono per nulla demo-cratici». Occulti burattinai, e mandanti de-gli 8 manifesti esecutori di Palazzo Ducale. A cogliere la sostanza etica dei fatti si può arrivare, come il mio amico, muoven-do dalla soia transgenica. Naomi Klein, l'autrice di No logo, ci arriva partendo dalle sottosalariate quindicenni della fabbrica di abbigliamento Kaho Indah Citra, alla peri-feria di Giacarta, nella zona industriale di Kawasan Berikat Nusantar. George Ritzer, l'autore di La religione dei consumi, prende-va le mosse dalle «cattedrali del consumo» (anzi, «iperconsumo») del beato Occiden-te. Molti degni ecclesiastici, e molti laici di animo sensibile (vivamente bacchettati, se tonsurati, non soltanto dal tonsurato Gian-ni Baget Bozzo, che non conta, ma da Ange-lo Panebianco, preoccupato Se in chiesa rientra Marx, Corriere della Sera, 13 ago-sto), sono scossi dal crescere del misurabi-lissimo divario tra i superricchi e i superpo-veri. Io, nel mio piccolo, mi sento più vici-no a quello Zernan Toledo, citato dalla Klein (p. 415, meglio tardi che mai), che battendo un pugno sul tavolo, in un hotel di Rosario, dice, finalmente: «Non hai letto Marx?».
Ecco, appunto. Perché, non credendo davvero che Marx stia entrando in chiesa (ci rientra Milingo, e bisogna sapersi accon-tentare), con tutta la simpatia che provo per i degni ecclesiastici (e laici) di cui sopra (nonché per Celli, Klein, Ritzer), confesso che sono un po' stufo di sentir parlare di ricchi e poveri. Non perché non ci siano. Ma la questione non è propriamente mora-le, per me. È, in prima (e ultima) istanza, economica e sociale. È politica. E dunque, coraggio. E se abbiamo letto Marx (può accadere), e dunque sul mercato mondiale e sulla globalizzazione siamo costretti a sa-perla lunghissima, per amore o per forza, parliamo di sfruttatori e sfruttati. Oggi, che sono di buona luna, mi accontento di Man-zoni, che discorre di oppressori e di oppres-si, come suole.
Lo so non ci sono più operai né fabbri-che, e a stento, forse, si può parlare di lavoratori, ma così flessibili che non arrivi più nemmeno a toccarli, che ti si sciolgono tra le dita, molli molli. Il guaio è che, per quanto me li occultino, il mondo è pieno di proletari.
Non saranno belli a vedersi, e nemme-no più esoticamente pittoreschi, nemmeno per i turisti sessuali meglio disposti,ma, con un po' di pazienza, se si hanno occhi per vedere, si trovano. E non dico a Giacar-ta, ma qui in Genova. dove scrivo, e dove posso additarli a chiunque, a gentile richie-sta, persino in quei carrugi da cui furono espulsi, con civile provvedimento, lindi ma miserabili, i loro panni stesi. Erano poveri panni di poveri sfruttati, diciamo di oppres-si. Si vede che incentivavano, pur candidi, la guerriglia urbana. Alla quale, teste il mi-nistro, le forze dell'ordine non sono pron-te, per ora.


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ultimo aggiornamento: venerdì 23 novembre 2001 16.46.30
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