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NO ALLA GUERRA - SEMPRE E COMUNQUE

Antonio Prete

L'orrore non va addomesticato

Afghanistan 7 ottobre 2001


Akram, Mohamed, Omar, Anis, Salmon. Al passaggio dei cinque bambini palestinesi l’ordigno è deflagrato. Sparato da un carro armato israeliano, era rimasto inesploso.
Nomi che seguono altri nomi, nomi che precedono altri nomi.
Corpi e pensieri dilaniati. Non vedranno i muri di pietra del loro villaggio né le nuvole che fuggono verso il tramonto.
Può accadere un mattino, sulla strada che porta alla scuola. O sulla strada dei giochi e degli inseguimenti.
Può accadere in una città non lontana, dentro un autobus, in mezzo al tumulto di una città. Oppure all’ombra di una pianta dove l’attesa pomeridiana ha riempito l’aria di pensieri leggeri, fuggitivi.
Può accadere nella notte, su una carreggiata petrosa che s’inarca su balze deserte, mentre il rombo dei bombardieri è appena percepibile, e sembra un inganno delle stelle.
Può accadere nella quiete mattutina di un ufficio, tra arredi non ancora svegli, e schermi di computer da poco accesi, mentre la luce fuori è ancora bianca, e il volo di un uccello riga il vetro della finestra, è allora che il passaggio all’inferno è una brevissima sequenza di istanti folli, istanti divorati dalle fiamme e dal crollo. Il tragico del secolo nuovo mostra la sua faccia nera, il suo urlo. Il tragico e l’impossibile si abbracciano.
Può accadere alla svolta di una carreggiata polverosa, il motore della jeep ancora acceso, e i corpi crivellati sul ciglio. O nel chiuso di una tenda, il sonno rinviato per le ombre e i presagi.
Può accadere sotto cieli non solcati da aerei carichi di bombe, su strade non attraversate da mitraglie: malattie e povertà continuano l’azione distruttiva della guerra.
Può accadere tra foreste e savane, o nel labirinto delle metropoli, dove corpi di donne e di uomini sono consunti dalla degradazione: dell’aria, della fatica. E dei sogni.


E’ questo che accade, in molti luoghi della terra. Ma soccorrono, civilmente, sensatamente, le ragioni: per ogni corpo ucciso c’è un pensiero che spiega, o c’è uno scopo, per migliaia di corpi devastati c’è un’idea, per milioni di sofferenze c’è un progetto. Il punto d’osservazione che la politica pensa come suo proprio è rassicurante, prospettico: l’inevitabile, il necessario sono categorie-diaframma. Corazze che difendono dal fetore dei corpi maciullati, dall’insopportabile puzza dei massacri. Le categorie dell’inevitabile e del necessario allontanano dalla vista il sangue dei singoli, portano in primo piano l’ordine pensato, la soluzione possibile, alla quale non mancherà neppure il decoro della parola pace. E’ infatti per la pace che si fa la guerra: bizzarria che la logica politica non sospetta né di contraddittorietà né di ipocrisia. Anche la catena di distruzioni e di conflitti che sopravviene in una guerra è tollerata in nome di una pace a venire.


Fioriscono le ragioni in nome delle quali la distruzione appare necessaria. Ragioni di fedeltà alla lettera del Libro, o alla lettera del Mercato, o alla lettera dell’ordine mondiale. La fedeltà al futuro impone il passaggio nel tempo tragico, persino la partecipazione attiva al tempo tragico. Al terrorismo si risponde con la guerra, o con il terrorismo: l’una e l’altro fanno discendere da un’idea il sangue. Il punto di vista politico non può attardarsi sui pensieri dei singoli, sui corpi feriti, sui desideri bruciati. La decisione è nemica del turbamento, e della perplessità. Che al terrore si possa rispondere non con la guerra né con altro terrore, ma con la saggezza, è opinione di qualche umanista attardato: costui finge di non sapere che la politica è fondata sui rapporti di forza. Realismo è la parola più vezzeggiata nel dizionario del politico.


Nei Parlamenti, votare per la guerra vuol dire concentrarsi sul fine, non sui corpi dei singoli, separare la distruzione dalle sue vittime, la morte dai corpi che essa va a possedere. Si può essere contro la pena di morte, e allo stesso tempo votare per la guerra: nella guerra la morte dei singoli non è la forma estrema della pena, ma un evento che appartiene all’ordine delle cose, un frammento di inconsapevole storia, il contributo dell’incolpevole a una probabile felicità degli altri. Non si condanna un popolo a subire una guerra, e il terrorista non condanna a morte i corpi che distrugge: gli uni e gli altri sono variabili di un destino. Passaggi irrilevanti di una scelta. O invisibili strumenti di un’affermazione. L’affermazione di una necessità. Il corpo del singolo esce dalla sua singolarità, i suoi desideri e i suoi pensieri vanno a comporre il fantasma che via via nella storia le guerre hanno chiamato nemico e che l’odierna tecnica della precisione chiama effetto collaterale. La pericolosità del nemico e la fiducia nell’intelligenza distintiva della tecnica bellica rassicurano: sostenere le ragioni di una guerra è stare nell’ordine del razionale. Nell’ordine del possibile, dell’unica cosa possibile. Il resto è ingenua alterità dell’idiota.


Dal Medioriente all’Asia centrale la geopolitica legge mappe possibili, segna confini e presenze, relazioni e alleanze, equilibri e esclusioni: nei sotterranei del castello i traffici, intanto, continuano. La prosperità di un paese si nutre della miseria dell’altro. La ricchezza dei pochi di nutre della povertà dei molti. Sotto le bombe, per alcuni, gli affari prosperano. E l’immensa quantità di danaro impiegata nella tecnica distruttiva, se è vero che potrebbe sollevare dalla miseria popoli interi, è anche vero che, trasformata e consumata in azione bellica, edifica per alcuni ingenti fortune.


Gettare dai cieli bombe e cibo, contemporaneamente: ultima figura del dominio che mima la potenza celeste. Decorazione umanitaria dell’orrore. Un bambino ucciso, un altro sfamato: la bilancia dei sentimenti sfiora l’equilibrio. E’ sottratto terreno alla colpa, ammesso che nei vincitori possa abitare l’ombra della colpa.

Ci sarà un’epoca nella quale la consustanzialità delle armi all’uomo -questa oscena protesi del potere- apparirà un risibile segno dell’imbecillità?

Le religioni del Libro molte volte sono state piegate a un’ermeneutica delittuosa, violentando la morale umana che sgorgava dalle parole dei sacri testi, una morale che consisteva nella conoscenza -curiosa, interrogativa, ospitale- dell’altro.
Che la lettera uccida è, letteralmente, vero. Accade quando, sulla lettera del Libro, in macabra danza, si congiungono fedeltà di credente, nostalgia dell’origine, astrazione dai corpi. E’ questo abbraccio che genera il vigore distruttivo dell’integralismo. Il sogno di purezza del credente può essere più feroce d’ogni più lugubre peccato. La congiunzione tra fede e azione può essere un passaggio per la santificazione della violenza. La violenza si svuota allora della violenza. Essa ha un fine, e questo fine è sostenuto da una fede. In questo ardore si brucia il senso dell’altro, del corpo reale e sensibile che è l’altro. I Demoni di Dostoevskij appartengono ancora alla nostra epoca. Ma sono anche, per le ombre del dubbio, per i tremiti di perplessità, per l’umano gioco dei pentimenti, per l’atroce ferita della colpa, romanticamente estranei alla nostra epoca. Perché la tecnica della nostra epoca trova nell’ astrazione dai corpi la perfezione. Dove grande è l’astrazione, grande è il cinismo.


Ma anche di altre storie -versi d’amore e prose di romanzi- è intessuta la memoria dell’Occidente. La memoria dell’Oriente. Memorie che si specchiano, e rispondono, e sovrappongono. Perché l’ospitalità della lingua non ha confini. E la poesia -“corporale, fantastica, materiale”, come la voleva il giovane Leopardi- è linguaggio in cui respira la singolarità del vivente, di tutti i viventi. Per questo al Cantico delle creature che apre la nostra letteratura rispondono nella stessa epoca i versi che Nezami mette in bocca al poeta-cavaliere Majnun, il quale liberava le gazzelle e il cerbiatto dai predatori e riteneva d’aver raggiunto la meta del suo regnare perché aveva distolto anche la fiera dalla violenza: “Il lupo vigilava sulla pecora, il leone ritraeva l’artiglio dall’onagro, il cane era in pace con la lepre, la leonessa allattava la gazzella smarrita” (*)
Figure di un mondo impossibile. Ma queste figure impossibili abitano il linguaggio. Queste figure impediscono che il nostro orrore per i massacri sia addomesticato. O sia appannato dall’ombra della giustificazione. Dall’ombra della ragione politica.

*Nezami, Leyla e Majnun, a cura di Giovanna Calasso, Adelphi, Milano 1985


13 dicembre 2001

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ultimo aggiornamento: giovedì 13 dicembre 2001 23.08.24
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