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NO ALLA GUERRA - SEMPRE E COMUNQUE

Dacia Maraini

Guerra

Afghanistan 7 ottobre 2001


È scoppiata la guerra. Dopo giorni e giorni di una calma inquietante, ovattata. In una Roma arsa dai venti africani di un ottobre caldissimo, per le strade si sente di nuovo questa parola terribile: Guerra. Non sembra accompagnata da paura, a dire la verità, come se si trattasse di una cosa lontana e che non ci riguarda. Tutti incuriositi, incollati alle radio, alla televisione, ma quasi fossimo di fronte ad un nuovo appassionante spettacolo. Un ‘Grande Fratello’ che compie i suoi giochi crudeli al di là di uno schermo.
Molti pensano che sarà una copia della guerra del Golfo. Saremo messi di fronte a dei diagrammi luminosi, si vedranno degli obiettivi centrati da una croce che si fa sempre più piccola, più lontana e poi assisteremo ad uno scoppio silenzioso e ci diranno che un camion nemico è stato centrato, poi subito dopo che è stata attaccata una caserma e il giorno appresso un centro di addestramento, poi una cittadina dove si sono rifugiati dei terroristi e poi chissà, anche case e strade dove si trovano i profughi che in queste ore scappano spaventati . La guerra non si controlla: è come un incendio che si appicca per bruciare le erbacce e poi basta un poco di vento per farlo diffondere e correre fuori dai confini stabiliti, col pericolo di travolgere il territorio intorno.
Comunque sappiamo che nessuno ci farà vedere le carni straziate di quelli che stavano dentro il camion, o dentro la caserma, o dentro la cittadina o per le strade affollate. Sarà una guerra silenziosa e indolore, perché i militari hanno capito che le immagini creano commozione e la gente che pensa alla guerra come ad un pugilato leale, non sopporterebbe l’orrore di tanti corpi fatti a pezzi.
Eppure sappiamo che questa guerra nasce da una giusta indignazione contro il terrorismo, contro chi ha voluto uccidere cinque mila persone innocenti in un solo colpo, nel modo più vile e infame, adoperando degli innocui aerei di linea e usando con cinismo del corpo di ragazzi che vengono considerati meno importanti di una granata, di un chilo di esplosivo.
Ma siamo proprio sicuri che i morti delle torri di New York stiano reclamando altre morti, altre stragi? Nei momenti di rabbia, di dolore, ancora ci rivolgiamo alla guerra come alla sola risposta possibile. Una risposta di soddisfazione vendicativa. Il dente per dente che diciamo di avere superato quando protestiamo contro la pena di morte. È utile per qualcuno uccidere per vendicare un delitto? si chiedeva Beccaria. Serve al morto? No. Serve ai vivi? No. La morte come deterrente è una idea convenzionale, che si è sempre rivelata perdente.
La cosa veramente nuova sarebbe mettere in opera una grande polizia internazionale che abbia la forza di arrestare i colpevoli, di portarli davanti ad un tribunale, di fare loro un processo e di condannarli. Ma ancora non sembra verosimile un simile sogno di pacifica convivenza. Continuiamo a ritenere che le carni maciullate saranno la sola risposta possibile alle carni maciullate di chi ha subito la prima ingiustizia.
Noi che siamo arrivati a condannare il sentimento della vendetta quando si tratta della pena di morte, non riusciamo a trasferirlo alla guerra, che continua a eccitare gli animi come se si trattasse di una grande partita di pallone.
Si criticano i talebani che pensano in termini di sangue, di sacrificio e noi facciamo lo stesso errore: cerchiamo il sangue perché solo il sangue può saziare la collera di chi è stato ferito nell’orgoglio e nell’amor di patria.
“Presso gli indiani”, leggo nel dizionario dei simboli, “la preparazione alla guerra non è un semplice allenamento fisico: è una introduzione alla vita mistica attraverso l’ascesi. I volontari per un anno praticano il digiuno l’isolamento nella foresta, chiedono e ottengono visioni, perchè la guerra è considerata prima di tutto una libagione di sangue, un atto sacro. Il destino normale di un guerriero è quello di offrire vittime agli dei poi di cadere egli stesso sulla pietra sacrificale . Egli diviene allora nei cieli un compagno del sole”.
Possibile che ancora non riusciamo a liberarsi di questa arcaica simbologia? Possibile che non ce la facciamo a superare il sentimento antico della vendetta e del sangue?
Ascolto le voci concitate dei tanti commentatori di questa nuova dolorosa guerra e capisco che non c’è niente da fare: tutti pensano che è più importante fracassare la testa del nemico che cambiargliela.


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ultimo aggiornamento: mercoledì 17 ottobre 2001 10.48.32
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