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NO ALLA GUERRA - SEMPRE E COMUNQUE

Romano Luperini

Dopo l'attacco terroristico a New York

Afghanistan 7 ottobre 2001


I
Le torri del World Trade Center sono il simbolo della ricchezza e dello splendore dell’America. Qualcuno, parlando prima di me, ricordava la gioia di avervi portato i figli ad ammirarle. L’ho fatto anch’io, in un giorno di ottobre di qualche anno fa. Ma il bambino, che aveva imparato a camminare da pochi mesi, scappava avanti e la gente si fermava sorpresa a guardarlo. Mia moglie e io credevamo che lo guardassero con la nostra stessa felicità. Invece la sorpresa era piena di preoccupazione. Infine una signora nera ci fermò e ci disse di stare attenti: rapivano bambini, la televisione aveva promosso una campagna perché i genitori li sorvegliassero da vicino.
Questa è l’America, anzi l’Occidente, la nostra civiltà. Che ha prodotto Beethoven ma anche la bomba atomica, Manhattan ma anche i ghetti neri, la democrazia antica ateniese e quella moderna inglese ma anche il nazismo. Quando diciamo che difendere New York è difendere la civiltà, dobbiamo precisare (e chiedere sempre di precisare) che cosa dobbiamo difendere perché questa civiltà è contraddittoria e nel proprio seno ha allevato anche i germi del terrorismo che la colpisce. Siamo tutti americani perché siamo tutti colpevoli.
E tuttavia non è un caso che molti dicano “siamo tutti americani” proprio ora e non abbiano detto, per esempio, “siamo tutti palestinesi” dopo l’eccidio dei campi profughi in Libano anni fa o non lo dicano ora per il genocidio strisciante praticato in questi mesi dal governo di Sharom. E’ che quando muoiono cinquemila persone nel World Trade Center è come se morissero a Milano nel grattacielo Pirelli o a Roma in piazza San Pietro; mentre quando muoiono migliaia di persone in Sudan o in Irak o in Palestina o in Nigeria o in Jugoslavia non ce ne accorgiamo nemmeno. Questa è la nostra civiltà, nutrita, si dice, dai “valori” dell’umanesimo.
Ma allora “siamo tutti americani” vuol dire solo, molto egoisticamente: “siamo tutti vulnerabili”. Abbiamo scoperto di colpo che siamo entrati nell’epoca della precarietà, che non esistono più barriere né confini né zone protette di sicurezza. Ci si è rivelato l’orrore che stava al di là dei vetri opachi che impedivano alla città postmoderna di vedere al di là di essi. Ora l’orrore è penetrato al nostro interno, inaspettatamente, e dovremo convivervi a lungo. Quello che accadeva a un’ora di volo da Roma non ci riguardava; ma quello che è accaduto dall’altra parte dell’Oceano, a Manhattan, sì. Non è solidarietà la nostra, ma compattamento prodotto dal terrore. Il terrore, in cui gioca anche un oscuro senso di colpa, è l’inconscio politico del pensiero unico occidentale. Dopo aver affermato per anni che la storia era finita e che non esistevano più contraddizioni, ci guardiamo intorno smarriti. Evidentemente non sono bastate le stragi irakene della Guerra del Golfo né ci hanno scosso i bombardamenti di Belgrado. Finché morivano gli altri, le contraddizioni non esistevano. Ora sappiamo che il postmoderno è davvero finito.

II.
Il terrorismo è un fenomeno interno alla globalizzazzione; dunque, in qualche modo, un prodotto della civiltà capitalistica. Il cosiddetto pensiero unico riposa su una certezza: l’unica legge è quella del mercato. Non servono più le ideologie universali perché l’unica ideologia universale è quella dell’onnipotenza del dio mercato. Possono rimanere, in funzione sussidaria, vecchi elementi ideologici connettivi, legati allo stato-nazione, come il patriottismo (d’altronde credere che la globalizzazione annienti gli stati nazionali, e in particolare quelli che sono all’avanguardia del processo di globalizzazione, è illusione di chi, per guardare avanti, non riesce a guardare intorno a sé). Ma il pensiero unico sembra incapace di mediazioni etico-ideologiche di largo respiro. Il profitto non ammette leggi diverse dalla propria. Mai il mondo è stato così privo di prospettive ideali e di nuove frontiere da conquistare. Persino i balbettii sulla “guerra etica” sono stati fatti rapidamente cadere. L’Occidente è costretto a rispondere alla violenza del terrorismo con altra violenza perché ormai non conosce altro linguaggio. Da anni pratica la guerra all’esterno e una politica autoritaria e poliziesca all’interno (Goteborg, Napoli, Genova…) perché non ha altri strumenti che quelli del potere. Pur avendo a disposizione i mezzi potenti della persuasione ideologica più capillare, non ha più bisogno dell’ideologia: gli basta la colonizzazione dell’inconscio che la produzione capitalistica dei linguaggi gli mette a disposizione. Rinuncia all’egemonia ideale e culturale perché gli basta (o crede gli basti) la forza del potere militare, economico e poliziesco.
Una globalizzazione economica incapace di portare nuovi valori provoca di fatto solo una disintegrazione e polverizzazione dei vecchi. Distrugge le identità, che erano anche ideali e culturali, senza crearne di nuove. Tutto ciò che c’era collettivo, di solidale, di sociale viene disaggregato. Grandi civiltà, come quella dell’Islam, vengono costrette a dissociarsi, a integrarsi nell’Occidente o a chiudersi in se stesse, a scindersi in stati e gruppi separati che coltivano la propria residuale identità in modi sempre più feroci e isolati. Lo stesso fondamentalismo si sviluppa così: quando l’identità non è più un progetto da conquistare nel futuro diventa ripiegamento nel passato, arroccamento su pratiche e costumi di tipo medievale che volutamente ignorano la modernità capitalistica e occidentale. In misura diversa, è un fenomeno in atto anche da noi, in Occidente, nella violenza da stadio o nella rivolta cieca di chi brucia e devasta. Per questo il terrorismo è l’ultimo prodotto della globalizzazione in atto. Se a un caduto del movimento, a Genova, si può porre la bandiera di una squadra di calcio sulla bara, vuol dire che di prospettive ideali, di utopie o di valori culturali capaci di proporre un’alternativa davvero non c’è più traccia, da noi: nemmeno fra chi è ancora in grado di un’opposizione morale e di ribellarsi all’ingiustizia.

III
La forza del movimento affermatosi a Genova sta nell’aver individuato il punto debole dell’avversario: la mancanza di mediazioni etico-ideologiche e dunque di egemonia. Il movimento nasce da un gesto etico, dunque individuale: i singoli denunciano che quanto accade non è giusto e si uniscono fra loro mantenendo tutte le loro individuali differenze. Non è poco, perché mettono il dito sul punto esatto della piaga. E che gli si risponda con la polizia è fatale: chi può intervenire sul loro piano che è quello squisitamente etico-ideologico della giustizia? Nell’impossibilità di opporre discorso a discorso non resta che l’uso della forza.
Il movimento di Genova è postcomunista. Pone dei problemi, non delle soluzioni (e se soluzioni indica, sono di tipo riformistico, non rivoluzionario). L’accento è posto sull’individuo, sul sé, sul corpo, sull’atto del singolo; e i singoli formano una moltitudine pulviscolare, non una organizzazione collettiva: da questo punto di vista anche il movimento è un prodotto della globalizzazione a cui reagisce. L’obiettivo del movimento è la vita, non il comunismo o qualsiasi altra soluzione sociale o politica.
La debolezza del movimento è anche la sua forza. La politica dell’innocenza è anche una proposta di innocenza della politica. Ciò può disarmarlo (per esempio, nei confronti della violenza “all’americana”, puramente distruttiva, che circola ai suoi margini) e indurlo alla sconfitta; ma può essere anche una garanzia di radicalità e dunque l’embrione di altro.
Il terrorismo prodotto dalla globalizzazione che i giovani combattono può annientare il movimento, e intanto indubbiamente ne riduce i margini. Se la spinta congiunta della repressione e del terrorismo dovesse soffocarlo, sarebbe soffocata anche l’unica ragione di speranza di questi anni: saremmo consegnati senza scampo al corto circuito della globalizzazione capitalistica e dei mostri da essa creati.

(intervento alla festa di Liberazione, a Roma, la sera del 12 settembre 2001)

3 dicembre 2001

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ultimo aggiornamento: lunedì 3 dicembre 2001 8.52.04
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