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FESTIVALFILOSOFIA 2002 sulla bellezza

La Bellezza tra virtù e virtuale

Riflessioni a margine del festival filosofia 2002

di Elisabetta Imperato

Modena - Carpi - Sassuolo | 20 - 21 - 22 settembre 2002


“Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara. Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l’avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è sconfinato e in pari tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nell’anima partecipa dell’essenza delle stelle…” (G. Lukacs, Teoria del romanzo)

“Quel piacere che è, ad un tempo, il più intenso, il più elevante e il più puro si ha, credo, nella contemplazione del bello. Infatti, quando gli uomini parlano di Bellezza non intendono precisamente una qualità, come si suppone, ma un effetto - in breve, si riferiscono appunto a quella intensa e pura elevazione dell’anima-non dell’intelletto o del cuore- di cui ho detto e che si prova nella contemplazione “del bello”. (E.A.Poe, La filosofia della composizione, in Opere scelte, Milano 1995, pag. 1311)

“Questa sete è propria dell’immortalità dell’Uomo ed è, insieme, conseguenza e prova dell’eternità del suo esistere: è l’aspirazione della farfalla notturna alle stelle. Ancora, essa non è semplice intelligenza della bellezza che ci sta dinanzi- ma lo sforzo selvaggio per raggiungere la Bellezza celeste. Ispirati da un’estatica prescienza della luce che è al di là della morte, noi lottiamo per conquistare, attraverso le molteplici combinazioni delle cose e dei pensieri del Tempo, una parte di quella Grazia i cui propri elementi appartengono, forse, soltanto all’eternità. E così quando ci sentiamo commossi fino alle lacrime dalla Poesia-o dalla Musica, quella che più rapisce fra le arti poetiche-non è (…) per un eccesso di piacere, ma per un certo acuto e inquietante dolore di non poter afferrare ora e interamente, subito e per sempre, qui sulla terra, quelle divine ed estatiche gioie di cui la poesia e la musica ci lasciano intravvedere soltanto un fuggevole e indistinto balenamento” (Il principio poetico, in Poe, Opere scelte, Mondadori 1971, pp. 1268-1269)


Nel mondo moderno, a partire soprattutto dal Romanticismo, l’idea della bellezza si collega spesso alla nostalgia per qualcosa che si ritiene irrimediabilmente perduto. Molti poeti individuano in questo struggente senso di perdita e di lontananza, l’essenza stessa della bellezza (quel “vago e sconvolgente oltre”)


L’idea di bellezza, la sua percezione, indubbiamente si modificano nel tempo. Ma dove collocare le fratture storiche, i passaggi epocali, e in base a quali criteri?
Il punto di svolta cambia ovviamente a seconda della prospettiva che si assume; appare convenzionale, ma non certo arbitraria, dunque, la sua individuazione: Potremmo iniziare, seguendo un percorso storico dalla bellezza greca intesa come proporzione, con l’ individuare il cambio di paradigma nella filosofia di Plotino che, come Cacciari ha ricordato, concepisce il bello non più come “isola”, ordine e simmetria, ma come infinito, indefinito e luce.
Potremmo partire dalla rivoluzione copernicana, come ha fatto Bodei a proposito del sublime moderno (riferito alla natura e non più all’orgoglio omerico), che comporta il naufragio della bellezza calcolabile attraverso il numero e che costituisce il tentativo da parte dell’uomo, spinto nel buio di un carcere periferico, di assorbire il colpo della perduta centralità terrestre e di fare i conti con l’infinito.
Potremmo iniziare ancora il nostro viaggio seguendo i francofortesi (che Perniola ha invitato a rileggere) nell’analisi di un processo di enorme rilevanza sociologica: l’avvento della società di massa che porta con sé la trasformazione del lavoro artistico e del conseguente consumo di bellezza.
Due, almeno, i luoghi possibili da cui partire: l’America e la Francia; la nascita della metropoli, dei generi di massa con Poe; di una nuova lirica con Baudelaire.

Poe ci offre nella sua opera, una allegoria del viaggio della bellezza nel suo modificarsi in quella parte variabile che meglio incarna lo spirito del tempo: nel percorso che va da “Il palazzo maledetto” (in cui la bellezza ideale nei suoi archetipi classici è consegnata all’ambito della tradizione e si dà come ricordo al poeta) a’ “ La rovina della casa degli Usher” (Usher è un sensibilissimo e decaduto artista), il sogno del poeta (Nella nostra più verde vallata, abitata dagli angeli, un palazzo grandioso, una volta, innalzava la fronte raggiante; nel dominio del re Pensiero, la sua fronte si ergeva laggiù”) si trasforma nell’allucinazione dell’artista di massa (la malattia psico-fisica di Usher) e una crepa si apre nella torre bellezza, presaga di rovina.
Da questo momento in poi, per molto tempo, la ricerca della bellezza incontrerà la morte: metaforicamente e non, la produzione dell’arte, nella società della merce estetica, si identificherà con un’operazione necrofila sul cadavere del passato, ancora unico involucro riconosciuto della agonizzante Bellezza.
Storicamente e sociologicamente, il cadavere è l’ultima forma dell’interiorità sconvolta e la prima figura del mercato.

L’artista metropolitano, scrive Benyamin, guarda al presente come se la storia fosse archeologia di frammenti, rovine, feticci.
L’antica bellezza, che appare povera a confronto delle improbabili associazioni della cultura di massa, si accosta e si ritrae dall’universo metropolitano che, sfiorato da essa, assume un senso nuovo di incantevole banalità o di banale incanto. La bellezza si fa grottesque, arabesque, caricatura, bizzarria, provocazione, disarmonia.

In una vignetta del 1843,un grande artista dei tempi nuovi, H. Daumier, raffigura un pittore di insegne pubblicitarie che esclama: “ Dire que j’ai passé quinze ans de ma vie à copier la jambe de l’Apollon du Belvédère pour arriver a peindre un pain de sucre sur l’enseigne d’un épicier”. E’ la prima avvisaglia del contrasto, e della nuova dialettica, tra arte e mercato, bellezza e merce, tradizione ed apparati produttivi.

Per altra via: Con la introduzione del caricaturale e del deforme nelle arti plastiche (emblematica roccaforte degli equilibri classici e del bello armonico) la tradizione accademica con grande preveggenza viene sacrificata alle nuove esigenze del mercato e al gusto del pubblico.
E’ interessante notare come una testimonianza della trasformazione in atto venga proprio da un poeta. Baudelaire non rinuncia alla lirica ma registra comunque la “perte d’aurèole”, elogia le mode, il trucco e l’artificio, si misura con la folla metropolitana, fa del fango la materia di nuove creazioni poetiche. Nei suoi saggi di estetica, scrive:

“(…) tutte le mode sono incantevoli, essendo ciascuna di esse un nuovo sforzo, più o meno felice, verso il bello, una qualsiasi approssimazione d’un ideale il cui desiderio solletica incessantemente lo spirito umano insoddisfatto.(…) Si è d’altronde osservato come l’artifizio non abbellisca affatto la bruttezza e non possa essere a servizio d’altro che non sia la bellezza. Chi oserebbe assegnare all’arte la sterile funzione d’imitar la natura? L’imbellettamento non ha da nascondersi, non ha da evitare che lo si scopra per indizii; può, al contrario, ben mettersi in mostra, se non con ostentazione, almeno con una specie di candore.
A quanti la loro rigida gravità impedisce di ricercare il bello fin nelle sue più minuziose manifestazioni, permetto volentieri di ridersi delle mie riflessioni e di dichiararne la puerile solennità; il loro giudizio non mi tocca per nulla (…). (C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in Le arti figurative, Torino pp. 445-447)

Lo sviluppo dell’arte moderna registra in gran parte questa rinuncia alla solennità del bello, accogliendo versioni multiformi e ibride della bellezza.
D’altro canto già Hegel, nella sue lezioni di estetica, aveva annunciato la morte dell’arte nella sua forma romantica:

“ Perciò come punto finale del romantico in generale noi abbiamo l’accidentalità dell’esterno come dell’interno ed un’esteriorità reciproca di questi due lati, con cui l’arte stessa si supera, mostrando la necessità per la coscienza di acquistare, al fine di apprendere il vero, forme più alte di quelle che l’arte è in grado di offrire” (Hegel, La forma d’arte romantica, in Estetica, vol. I, Torino 1976, pag. 594)

Il rapporto tra Verità e Bellezza, che nella speculazione platonica appariva centrale, comincia ad incrinarsi.
L’arte,che ha ad oggetto il vero, come la religione e la filosofia, non è più in grado di conoscere pienamente l’Assoluto, che richiede forme più adeguate di rappresentazione.
Allo stesso modo viene messa in discussione l’antica convergenza tra Bellezza e virtù.
Nell’ ”Inno alla Bellezza”, Baudelaire scrive:

Vieni, o Bellezza, dal profondo cielo
O sbuchi dall’abisso? Infernale e divino
Versa insieme, confusi, la carità e il delitto
Il tuo sguardo:assomigli, in questo, al vino.

E più avanti:

Cammini, Bellezza, su morti, e ne sorridi;
fra i tuoi gioielli l’Orrore non è il meno attraente
e, in mezzo ai tuoi gingilli preferiti,
l’Assassino oscilla adorabile sul tuo ventre orgoglioso.

E, nelle ultime due strofe:

Che importa che tu venga dall’inferno o dal cielo,
o mostro enorme, ingenuo, spaventoso!
Se grazie al tuo sorriso, al tuo sguardo, al tuo piede
Penetro un Infinito che ignoravo e che adoro?

Che importa se da Satana o da Dio? Se Sirena
O Angelo, che importa? Se si fanno per te
-fata occhi-di-velluto, ritmo, luce, profumo,mia regina-
meno orrendo l’universo, meno grevi gli istanti.

Per altra via, in un diverso contesto storico-culturale, P. Valéry, da un’altra prospettiva, coglie nello sviluppo della tecnica quellla morte annunciata da Hegel, interpretandola però come una “meravigliosa trasformazione”:

“Le nostre Arti Belle sono state istituite, e il loro tipo e il loro uso sono stati fissati in un’epoca ben distinta dalla nostra e da uomini il cui potere d’azione sulle cose era insignificante rispetto a quello di cui noi disponiamo. Ma lo stupefacente aumento dei nostri mezzi, la loro duttilità e la loro precisione, le idee e le abitudini che essi introducono garantiscono cambiamenti imminenti e molto profondi nell’antica industria del bello. In tutte le arti si dà una parte fisica che non può più venir considerata e trattata come un tempo, e che non può più venir sottratta agli interventi della conoscenza e della potenze moderne. Né la materia né lo spazio, né il tempo non sono più, da vent’anni in qua, ciò che erano da sempre. C’è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e che così agiscano sulla stessa invenzione, fino magari a modificare meravigliosamente la nozione stessa di Arte.(Paul Valéry, Pièces sur l’art, Paris, La conquéte de l’ubiquité)


Il processo di trasformazione in atto investe profondamente modalità di produzione, di trasmissione e consumo. Come Benyamin scrive:

“Verso il 1900, la riproduzione tecnica aveva raggiunto un livello, che le permetteva, non soltanto di prenderecome oggetto tutto l’insieme delle opere d’arte tramandate e di modificarne profondamente gli effetti, ma anche di conquistarsi un posto autonomo tra i vari procedimenti artistici. Per lo studio di questo livello nulla è più istruttivo del modo in cui le sue diverse manifestazioni-la riproduzione dell’opera d’arte e l’arte cinematografica-hanno agito sull’arte nella sua forma tradizionale” (W. Benyamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966, pag.21)


Da molto tempo il discorso sulla bellezza non è più di esclusivo dominio delle arti. Non solo perché il bello non ha padroni e la sua esperienza non ha confini accademici ma anche perché a partire dalla riproducibilità tecnica (dalla litografia alla fotografia, al cinema, alla radio e alla televisione) le forme della bellezza passano sempre più, incrociandosi e contaminandosi, attraverso quelle degli apparati industriali e dei prodotti, dei mercati e dei consumi, dei bisogni e delle merci.
La difficoltà di affrontare il tema dal punto di vista della storia della filosofia dipende dunque da due ordini di fattori:
Il primo, di tipo materiale, legato ai processi di produzione e alla storia dei media. Ne deriva che affrontare questo tema significa anche affrontare quello degli apparati produttivi e delle ibridazioni medianiche;
Il secondo, più squisitamente culturale, dovuto alla impossibilità di ritagliare un ambito d’indagine esclusivamente filosofico, che non risulti investito e contaminato da altre forme culturali e di confine.

La filosofia non può prescindere dalla storia della tecnica; se lo facesse rinuncerebbe alla sua vocazione originaria. Interrogarsi sul mondo significa affrontare innanzitutto il problema del senso, ma anche quello degli artifici, delle costruzioni umane che (di) quel senso (s)i imbevono.

La prima lezione sulla bellezza, quella di Gallo rivolta agli studenti dell’ultimo anno delle superiori, che venerdì 20 settembre ha aperto il festival sulla bellezza a Modena, ha colto questa prima difficoltà di approccio al tema bellezza.
Oggi è quasi impossibile, ha detto lo studioso, avere un punto di vista sull’arte senza che dietro ci sia un pannello di discipline. La filosofia, la storia dell’arte, da sole non sono più sufficienti, l’approccio multidisciplinare appare una necessità. Questa necessità, a mio parere, risulta giustificata soprattutto dalla complessità degli apparati, dalla confluenza dei linguaggi mediatici, dalla commistione dei segni, dall’incrocio di pratiche alte e basse.


I passi citati in apertura si prestano ad introdurre, non solo “suggestivamente,” la molteplicità dei temi e le inevitabili aporie che si presentano quando ci ritroviamo ad affrontare, dal punto di vista filosofico, un discorso sulla bellezza.
Fortunatamente le domande contano più delle risposte. La filosofia ha la sua identità originaria proprio nell’ arte dell’interrogarsi.

Ma la bellezza è definibile oggi in maniera unitaria? E ha senso chiedersi che cosa essa sia e tentar l’essenza? Come si modifica la sua idea nella cultura occidentale? Quando l’idea di bellezza, che nella cultura greca rimanda a ciò che è finito, limitato (finitezza, simmetria e proporzione) comincia a legarsi a ciò che è infinito, vago e indistinto? La bellezza è un’idea, un sentimento o una passione? E’ disinteressata o vitalizzante ? Il giudizio di gusto ha a che fare con un bello universale o ha carattere soggettivo? E’ possibile parlare di bellezza disarmonica? Il bello è immanente o trascendente? Può dirsi bella la guerra? Bello, Vero e Bene sono ancora collegati in qualche modo come nella cultura greca e nella Scolastica? Il bello è un a priori o dipende dalla storia, dai canoni e dalle tradizioni? E’ possibile oggi ritrovare un legame tra estetica ed etica e cercare attraverso il bello un mondo più giusto? Possiamo chiamare bella la vita cristiana?

Questi alcuni degli interrogativi sollevati nell’ambito della manifestazione.

La bellezza è:

Finita o infinita, isola o mare?
artificio, effetto o qualità oggettiva?
dipende dalle caratteristiche del fruitore, è frutto di una relazione, o, in termini kantiani, di un accordo tra soggetto e oggetto?
eternità o contingenza?
figura o luce?

Con Plotino la bellezza diventa oggetto di una metafisica della luce che si sviluppa attraverso una dialettica filosofica. Il bello non può più ridursi a questioni di simmetria, (“forse che non è bella la luce” ?) Il bello può essere qualcosa di infinito (o indefinito, vago). Bello può diventare il movimento stesso del cercare, lo sforzo dell’artista verso la luce (così come lo streben dei romantici). Cacciari sottolinea il significato metafisico di opere come quella di Michelangelo: viaggio attraverso il corpo verso la luce, avventura, odissea, fatica, tormento.
La bellezza può presentarsi sia nella forma della proporzione che in quella del lampo: in ogni caso l’evento del bello orienta il nostro spazio e lo gerarchizza, ridefinisce il contesto e lo sfondo, dona senso e orienta, chiama e richiama, informa e trasforma.
Dall’isola bellezza, anche nella visione dei filosofi antichi, a partire da Platone, ben presto si trascende, nel tentativo di avvicinarsi ad un bello più elevato, luminoso, archetipico, unico.
Bella non è solo la cosa in sé che definiamo bella, ma l’idea a cui rimanda e il percorso stesso di avvicinamento alla luce.
L’arte come tensione e/o come artificio estremo: la bellezza tra terra e mare, l’isola e la caverna platonica, l’ascesa, il ritorno, la nausea della rappresentazione. L’arte come menzogna. Il disincanto. Il gesto estremo di certa arte contemporanea: se è impossibile attingere alla luce devo oscurare la luce perché quella luce è falsa. Indistinguibilità dell’arte dal mondo degli artifici e sua autoreferenzialità.


Il tempo della bellezza è sempre il passato o il futuro, il suo movimento è un ritorno o un’aspettazione, solo raramente il suo luogo è il presente. Difficilmente il presente ci appaga. La bruttezza è oggi signora indiscussa della politica.
Un primo paradosso: il tempo verbale della bellezza intesa come perfezione è esso stesso imperfetto.

“ (…) quando beltà splendea…”


Tra immanenza e trascendenza e tra passato e futuro, recuperato problematicamente al presente nel gesto di negazione di tanta arte contemporanea, il bello è sempre l’inizio di un processo ulteriore. Quando ci innamoriamo vogliamo vivere con la persona amata e non solo contemplarla (Vattimo). La bellezza è pienezza di possibilità e non pienezza raggiunta, è progetto, condivisione (“La bellezza è qua dice Vattimo, noi tutti insieme facciamo la bellezza, altra bellezza non c’è”).


Tra felicità e dolore:
A tutte le manifestazioni più alte del Bello, per Poe, è connesso inseparabilmente un certo tono di tristezza.

“Un senso di tristezza e desiderio
Che non è simile al dolore,
E gli rassomiglia solo
Come fra loro pioggia e nebbia.”
(Poe, Il principio poetico, cit.,pag.1275)


La Bellezza come effetto

Ne La filosofia della composizione, Poe si pone conflittualmente rispetto alla metafisica romantica del genio e, in un’opera di definizione razionale degli strumenti usati dal poeta, ricostruisce il processo compositivo della poesia “ Il corvo”; ne evidenzia gli aspetti tecnici, la massima attenzione ai suoni e al lato formale del linguaggio, l’uso studiato della parola suggestiva per la costruzione dell’effetto poetico. Sulle orme del Coleridge, sostiene l’importanza della brevità dell’opera ed esamina con acume gli elementi che destano il senso poetico: il suono, l’accostamento delle parole, la ripetitività del refrain. Tutto ciò contribuisce ad evocare immagini dense di effetti: la poesia deve essere costruita tenendo conto dei meccanismi psicologici che operano nella ricezione e nella memoria. Ma Poe si spinge oltre e giunge ad asserire la riproducibilità del senso della bellezza attraverso una acquisizione di tipo tecnico. Lo scrittore intende lanciare una sfida all’universo tecnologico, nel tentativo di controllare, e addirittura anticipare, il processo di sviluppo che tende alla riproducibilità della cultura e alla massificazione. Poe vuole potenziare l’aura dell’arte nella merce, o meglio mercificare il senso della lontananza al punto da vendere al mercato lo stesso metodo di lavoro: il segreto della composizione poetica.

Razionalità di Poe e razionalità del mercato: lo scrittore, riferendosi ai destinatari della sua opera, usa non casualmente il termine “public” al posto di “reader” ed esplicita l’effetto poetico di temi quali la bellezza, la malinconia, la morte.


La bellezza è passione per ciò che è fuggevole, per ciò che si può perdere (Savater)


Il carattere duplice, paradossale (Baumann), aporetico (Cacciari) del bello è individuato già da Baudelaire:
“Il bello è fatto d’un elemento eterno, invariabile, di quantità estremamente difficile a determinarsi, e d’un elemento relativo, occasionale, che sarà, se si vuole, di volta in volta o tutt’insieme, l’epoca, la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento, che è come l’involucro gradevole, allettante, eccitante, della torta divina, il primo elemento riuscirebbe indigeribile, inapprezzabile, non adatto e non appropiato alla natura umana. Sfido a scoprire un qualsiasi esemplare di bellezza in cui non si ritrovino questi due elementi” ( Il pittore della vita moderna, in Le arti figurative, Torino 1961, pag. 409)
E ancora:
“La modernità è il transitorio, il fuggevole, il contingente, la metà dell’arte, l’altra metà della quale è l’eterno e l’immutabile”. (idem, pag. 420)

Bellezza equivoca ( Perniola), tormento della molteplicità, spaesamento e disturbo più che appaesamento e soddisfazione tranquilla (Vattimo), “bellezza contingente” che si libera dalla malattia dell’enfasi attraverso una dietetica del senso, estetica che ritrova nella contingenza un collegamento nuovo con l’etica (Savater).

Se per Cacciari l’isola bellezza rimanda alla caverna platonica, per Savater non dobbiamo sospirare per uscire dalla caverna ma scegliere l’umile tentativo di perfezionamento, umano e non divino, che ci è dato attraverso la condivisione. Savater si interroga sulla umana capacità di guarire dal coraggio enfatico, parla di cura per la contingenza, di accettazione della provvisorietà dell’esistenza.




LA MORTE DELL’ARTE E LA BELLEZZA DISARMONICA

Nessuno più di Benyamin ha indagato con anticipato senso critico ed infinito acume la relazione problematica dell’artista col suo pubblico.
A proposito di Baudelaire, il filosofo scrive: “ Egli ha mostrato il prezzo a cui si acquista la sensazione della modernità: la dissoluzione dell’aura nell’”esperienza” dello choc. L’intesa con questa dissoluzione gli è costata cara. Ma essa è la legge della sua poesia. Questa brilla nel cielo del Secondo Impero come “un astro senza atmosfera” (W. Benyamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, 1976, pag. 126)

Per Vattimo esperire immediatamente la bellezza non è possibile: la sua è sempre una esperienza mediata dalla tradizione in cui si vive, da canoni e modelli, dal linguaggio che ci (la) in-forma. Pluralità di modelli: c’è un bello classico e un bello romantico, un bello asiatico e un bello semitico: non sarà mai bellezza la monotonia di un modello. I modi di esperire la bellezza sono vari e non riconducibili alla dicotomia tra visione vera e semplice inganno. Ma oggi è ancora possibile distinguere realtà e apparenza, verità e finzione?
E la bellezza che colore ha?



Come già detto, ci sono epoche che hanno avuto un’idea malinconica del bello, legato alla percezione di una perdita avvenuta o del suo carattere intrinsecamente caduco.
La cultura barocca, dietro un’apparente enfasi delle forme rivela la fragilità della natura umana e si aggrappa alla vita per durare.
L’allegoria, scrive Benyamin, è una forma d’arte che non tende più alla bellezza ma è l’espressione del decadimento e della rovina. Ciò che se ne sta lì ridotto in macerie, il frammento, il pezzo staccato, è questa la materia più nobile della creazione barocca. Il compito dell’arte per l’artista barocco è la penetrazione e la salvazione del particolare, non più espressione di false armonie o anticipazione di sintesi e totalità.
Il sovraccarico e la ridondanza sono caratteristiche del secolo, che si esprimono anche nelle eccessive dediche e prefazioni utilizzate per introdurre e commentare i poemi .
Nessun altro secolo ha forse conosciuto come il barocco la contingenza dell’esistenza umana.
Lo sguardo dell’allegorico è lo sguardo dell’estraniato. Lo sguardo in profondità è lo sguardo di chi è triste.

Freud ne Il poeta e la fantasia individua una continuità tra il gioco del bambino, la fantasia dell’adulto e l’opera del poeta. In tutti e tre i casi c’è alla base un desiderio insoddisfatto. Il disagio della civiltà genera e diffonde un nuovo e diverso bisogno di bellezza. La realtà genera infelicità. Già per Baudelaire, la regina delle facoltà è l’immaginazione.

Morte e bellezza. Malinconia e amore. Lontananza e perdita. La solidità di una statua di Apollo e la impalpabile fugacità di una nuvola. Il desiderio e la sua pacificazione. Il ricordo e la nostagia. La contemplazione e lo streben. Il cercare inappagato della vita. Il perdersi e il ritrovarsi. Il nuovo e il sempreuguale, Il viaggio e/è la meta. Il simbolo classico e l’allegoria barocca.
La Bellezza e le bellezze, l’arte e le mode.
Bellezza come allegoria della morte e della trascendenza. La bellezza perfetta come punto d’approdo e negazione del divenire: l’ordine di un cimitero (Baumann). La bellezza “estrema” si rovescia nel proprio contrario. Una versione esclusivamente estetica della bellezza dovrebbe portarci a concludere che il lager, nella sua terribile perfezione, è bello (Vattimo). La guerra ha una sua bellezza per Hillmann. Ma in un senso ben diverso da quello di un D’Annunzio o di un Marinetti. Bisogna conoscere la bellezza della guerra per tenerla a distanza: il veleno è sempre anche il farmaco. Bisogna ricercare la colomba della pace nel cuore dell’aquila di Ares.


Molteplicità del bello e sua ambiguità.


Bella è la disperazione degli amanti Paolo e Francesca accolta da Dante nel V canto dell’Inferno, ma anche il sacchetto di plastica che volteggia sollevato da un vento leggero nella nota sequenza del film American beauty.
Lo spirito del tempo è nella secolarizzazione della bellezza e nel pluralismo, nella varietà dei canoni presenti all’interno dello stesso museo.

La bellezza si fa provvisoria, casuale, possiamo incontrarla ovunque e in nessun luogo, nessuno più oggi ci dice dove possiamo ammirarla. E’ inutile la ricerca di una legittimazione perché l’esperienza autentica della bellezza non richiede certificazioni aggiuntive. L’esperienza della bellezza è quella del bambino che davanti ad un ciottolo dice “che bello” (Savater). La difesa della bellezza può diventare apologia del caso.

“Le idee stanno alle cose come le costellazioni alle stelle”

Questa è una bella immagine, per la vista e la mente, per quello che evoca e per ciò che non dice.

W. Benyamin da storico del barocco si trasforma in storico della città di massa e riconosce nell’avanguardia, a partire dalla lirica di Baudelaire, la risposta dell’artista all’avvento della società industriale.
Contro la decadenza dell’aura Il filosofo francofortese vede un potenziale alleato proprio in quella tecnica che pure ha contribuito a determinarla.
Così Vattimo, nel testo “La società trasparente”, scrive: “Ciò che intendo sostenere è: a) che nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media ; b) che essi caratterizzano questa società non come una società più “trasparente”, più consapevole di sé, più “illuminata”, ma come una società complessa, persino caotica; e infine c) che proprio in questo relativo “caos” risiedono le nostre speranze di emancipazione.” (Vattimo, La siocietà trasparente, Nuova edizione Garzanti 2000, pag.11)
Così Abruzzese in “ Analfabeti di tutto il mondo uniamoci: “ Il computer si offre qui come veicolo di accesso a ciò che la cultura industriale di massa non ha compreso e non poteva comprendere; come qualità del corpo che la scrittura non poteva sentire sino in fondo; come soggettività restata in ombra durante l’epoca della riproducibilità tecnica e dei linguaggi collettivi. E dunque nella cibernetica si annuncia la possibilità di vedere, proprio dietro il crollo dei linguaggi storici della civiltà moderna, la nascita, anzi la liberazione, di una nuova dimensione antropologica dell’abitare, di una nuova cultura, una “nuova entità” (Flichy) non trascendente ma immanente ai processi sociali.” (A. Abruzzese, Genova 1996, pag. 29).
Le nuove forme del bello, nel nostro tempo, caratterizzato dallo sviluppo di un sentire artificiale (Perniola, 1994) sono ancora tutte da indagare. Il mondo, sempre più “postumano” o “postorganico”, pone il centro della sensibilità ad di fuori dell’uomo, dislocandolo ad esempio nel computer.
Quale sarà la bellezza del cybernauta?

Heidegger considera la cibernetica l’erede più prossima della filosofia intesa come metafisica.
La sua attenzione alla tecnica è’ una lezione da ricordare. Il compito della filosofia è ancora capire. Capire, attraverso la storia di un pensiero che si forma negli artifici e al tempo stesso li forma, e che si modifica attraverso connessioni sempre nuove, capire reti e trame via via più complesse. Ma per fare questo bisogna ripercorrere la storia della società di massa, dai suoi albori ad oggi.
Senza archeologia non c’è alcuna futurologia.

Il metodo archeologico di Benyamin ha una sua bellezza,e oggi può ancora ispirare il lavoro del filosofo che vuole confrontarsi con la società presente attraverso la genealogia dei processi produttivi. Degli apparati che danno corpo, socialmente e individualmente, alla costruzione della bellezza, del suo senso e della sua idea.
L’esperienza dello choc come punto di inizio, la trasformazione dell’arte in merce, l’origine dei processi di industrializzazione del fare artistico, della sua produzione e del suo consumo. Il senso dell’accelerazione della storia, della catastrofe e della apertura di possibilità.
Accogliamo l’invito di Perniola a rileggere i francofortesi, ma soprattutto ricostruiamo i passaggi, le forme dell’abitare la bellezza, le contaminazioni attraverso le quali “ (…) nostalgia per il passato e desiderio di futuro si intrecciano e producono energia. Fasi di passaggio, animate da “effetti speciali”, aberrazioni del corpo e dello spirito, eccessi della fantasia, creazione di mostri.
Per capire meglio l’ambiguità di questi transiti, il senso delle immagini che producono e consumano, può dunque essere estremamente utile riandare alle radici ottocentesche di quella civiltà dello spettacolo e, appunto, dell’immagine, da cui ora ci stiamo allontanando per abitare i margini estremi della società dell’informazione” (A. Abruzzese, Introduzione a: “ Elisabetta Imperato, La morte, la merce e il comico. Saggio critico sull’opera grafica di H. Daumier”, Modena, 1987, pag. IV)

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ultimo aggiornamento: domenica 29 settembre 2002 15.16.41
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