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Recensione


Queste storie son da Moviola

di Paolo Ruffilli

da Il Resto del Carlino
14 febbraio 1996


Nadia Cavalera esplora, nei racconti di «Nottilabio», i dettagli più inattesi dell’esistenza quotidiana: da Predappio ai luoghi della Padania
Si è parlato in questi ultimi anni di una poetica del minimo sforzo; nel senso che un’esperienza di vita per così dire picaresca si traduce in virtù dell’inversamente proporzionale in una forma letteraria sorvegliata e composta. Mi viene in mente tale riferimento leggendo i racconti che Nadia Cavaliera, modenese di adozione, raccoglie nel volume Nottilabio (edizione “La città della luna”), sotto un titolo creativo che mette in relazione la notte con le risorse tattilo-conoscitive.
I racconti apparentemente semplici, «parlati» nella lingua di ogni giorno, di Nadia Cavaliera nascondono in realtà una ricerca formale severa. Presentandoli Giorgio Celli li paragona a delle istantanee oniriche che nascondono la tentazione di far coincidere il casuale con l’esemplare, il discorso contingente con le massime sapienziali «in una continua acrobazia di compresenze fortuite, e di varia origine, che ricorda la tecnica pittorica del collage».
Il modo scelto dall’autrice sembra quello della sovrapposizione di piste diverse: testimoniale, onirica, riflessiva; in una sorta di flusso di coscienza nel quale risaltano spietati scorci della realtà quotidiana colta nel suo squallore, ma anche nei suoi momenti sublimi e strazianti, in attimi di intensa umanità. Il narratore che dice «io» parla di sé a se stesso e si fa personaggio tra gli altri personaggi, ironico e sofferente, per niente aspirando al ruolo del protagonista assoluto e astratto.
Come si legge nella prefazione, il protagonista che non esiste si manifesta nell’immagine fantasma di un creatore d’ordine nel disordine, o viceversa; prende corpo come demiurgo di un’entropia degli accadimenti della vita quotidiana che appare e scompare trasformata in cifra «attraverso una scrittura mantenuta coerentemente ai confini dell’altrove». Insomma, quando Nadia Cavaliera afferma qualcosa, la spiazza immediatamente dopo, e se ne va sempre per la tangente della sua ultima affermazione, coltivando una pervicace vocazione per la fuga e per una trasgressione operata, per così dire, su se medesima. Gli scenari dei racconti mutano in rapidissima progressione: la redazione di un giornale bolognese, Predappio dove si restaura la casa del duce, uno scorcio di Padania emiliana.
E l’io narrante, arrancando per continui aggiustamenti, compone i suoi collage di vita riconsiderati alla moviola interiore. Dubita, riflette, ricostruisce, fa dichiarazioni come questa: «Marx credeva nell’utopia socialista e alla luce del fallimento del socialismo reale mi è sembrato opportuno compiere un’analisi retrospettiva».
Il tono dell’affermazione appena riportata è rivelatore dello spirito che anima i racconti, nell’ottica obliqua e perplessa di un improbabile costantemente minacciato dal probabile. Del resto, è l’autrice stessa a rivelare consapevolmente la propria poetica: «descrizione di un fatto reale che possa assurgere ad allegoria di un altro fatto reale, su cui esprimere così in distanza per maggiore presa, il mio punto di vista».
Tanto che, volendo giocare ironicamente con le etichette classificatorie, Nadia Cavaliera si può autodefinire niente meno che «supperrealista allegorica»




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ultimo aggiornamento: lunedì 20 settembre 2004 12.05.25
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