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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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Recensione

Sulla mostra Cento teste per Giovanni Macchia



Dal 24 agosto al 29 settembre 2002, a Gombola (comune di Polinago - Modena- ), in esposizione,
cento opere
di settanta artisti tra i più significativi del panorama emiliano


L'avrebbe mai detto quel notabile del Seicento, sepolto, in data incerta, presso l'altare maggiore della propria parrocchia, che un giorno il suo corpo, per lo stillicidio di una goccia che ne indicava il luogo preciso ("gutta cavat lapidem"), sarebbe stato rinvenuto mummificato; che, considerato subito in odore di santità, sarebbe stato ricoperto di bianco camice, e esposto in una teca, alla pubblica venerazione, fino a che, per fatiscenza totale della chiesa stessa, avrebbe avuto anche un'obbligatoria quanto commovente traslazione in altro luogo, tra canti, pianti e qualche miracolo?
Ebbene l'avrebbe detto quel signore delle "Macchie", che un giorno la chiesetta che aveva scelto per ultima dimora, sarebbe ritornata alla sua semplice primitiva bellezza, e che degli artisti anticonformisti, fortemente democratici (è il popolo che sceglie i suoi santi) gli avrebbero tributato addirittura una mostra?
Stiamo parlando di Giovanni Antonio Macchia, della località "Le Macchie", il "Santo di Gombola", amato dal popolo, non riconosciuto dalle autorità ecclesistiche.
La chiesa, da poco restaurata, ma sempre sconsacrata, è quella di San Michele Arcangelo, sul Saxum Gomolum, (dove prima insisteva un castello dell'anno mille, ruinato nel 1597), nel folto verde dell'Appennino, dopo il ponte romano di Brandola, sul Rossenna .
E la mostra in questione ha per titolo: Cento teste per Giovanni Macchia - la ragione agli artisti emiliani, a cura di Marco Mango.
Un'occasione anche per il recupero e rilancio di vecchi suggestivi borghi.


L'armata brancaleone di nostre teste quotidiane

di NADIA CAVALERA


Modena, 28 Agosto 2002


"Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce" diceva il mistico Pascal in uno dei suoi famosi Pensées, rilanciando una vecchia dicotomia, a partire da Aristotele, che ha trovato proseliti sino ai nostri giorni, con turbe di individui a caccia dei sentieri (con baratro a vista) di un autonomo cuore impossibile, dimentichi o ignorando che "non ci sono ragioni del cuore che il cervello non conosca", per dirla con uno dei miei Pensées in libertà vigilata (1). In altre parole, che è il cervello la sede della ragione e che per ragione deve intendersi l'insieme delle facoltà che presiedono all'agire umano, siano esse speculative, operative, emotive. L'uomo ha facoltà di prediligere perentoriamente l'una o l'altra, con grave danno però del giusto raziocinio che contempla invece un sano utilizzo sinergico delle stesse.
Ora il cervello, unico vero centro motore di ogni entità materiale, nell'essere animale, quindi anche umano, (ma, qui, è a questo che mi riferisco), risiede nella testa, che lo custodisce così amorevolmente, nella scatola cranica, che le suture tra le sue ossa rappresentano il tipo perfetto di articolazioni immobili (o sinartrosi, per gli esperti).
Due, per me (pesco sempre, perdonatemi, nei miei Pensées), le facoltà principali, che il cervello esercita, nello stesso modo, in tempi diversi (giorno, notte): la registrazione e la progettazione su elaborazione. Durante la veglia, registra i dati dell'esperienza dello specifico in cui si trova ad operare, ne elabora i dati e fornisce soluzioni immediate ai vari problemi esistenziali. Poi, durante il sonno, fissa ed elabora gli stessi dati per la specie d'appartenenza, comprimendoli nel nostro dna e lavorandoci sopra (tramite i sogni) per consentirne il migliore sviluppo filogenetico. I dati vengono forniti dai sensi, i cui organi principali non a caso gli sono contigui: la vista, l'udito, l'olfatto, il gusto. Per il tatto dispone dell'intero corpo, che a questo punto però potrebbe configurarsi inessenziale se non intervenisse il fattore procreativo, che è il fine per eccellenza cui tende spasmodicamente l'intera natura per garantirsi la molteplicicità infinita del reale. E' stato già accertato che ogni essere umano ha impronte digitali diverse, occhi diversi e col tempo, c'è da esserne sicuri, quando i mezzi di rilevazione saranno affinati, questa diversità verrà provata per ogni parte del corpo, e sarà riconosciuta a tutti i corpi esistenti. A convalida di quanto prima: in natura non c'è niente di identico. La diversità è un valore.
Così ogni testa o cervello che dir si voglia (è una metonimia) risulta una realtà assolutamente unica che va coltivata (educata, in eventuali devianze, con la pratica di una corretta ecologia ambientale e interpersonale) nella sua specificità, va preservata in tutti i modi dagli insulti ripetuti, protratti della manipolazione e dall'omologazione incalzante di una società becera che per giochi di potere e/o economici aborre dalle teste autonomamente pensanti. Sono un intralcio alla realizazzione della nuova sudditanza umana: lo zombi consumatore totale. Puro nastro ricettivo, evirato del rischio di reazioni che non si concretizzino in semplici esecuzioni di comandi dall'alto. La società capitalistica o del benessere, ma per pochi (l'estensione a tutti fu una pia svista presto corretta) perseguita le teste/individui con tutti i mezzi, manifesti, latenti, subliminali. Le bombarda di messaggi, ne lava i cervelli, le spinge all' alienazione, allo svuotamento, all'annullamento. Per farne innocue comparse per il gioco delle parti di pochi autoeletti, che (privi evidentemente di quella prevenzione educativa cui accennavo prima) pretendono di decidere, ahinoi disastrosamente, la sorte dei più.
Che fare? subire tacitamente? o denunciare almeno lo scempio? I settanta artisti emiliani di "Cento teste per Giovanni Macchia - la ragione agli artisti emiliani" hanno optato per quest'ultima soluzione, sventolando il primato della ragione e rivendicando il diritto al pensiero antagonista, con l'allestimento di una mostra /campionario dello stato di pessima salute delle nostre teste. Che in questa insolita rassegna, tra foto, sculture, quadri, installazioni, si susseguono mummificate (Persiani), addirittura fossilizzate in grumi incomprensibili (Manfredini), più spesso sfumate, evanescenti, in tratti appena accennati, anche contorti (Bastai, Bondioli, Chiesi, A. Zamboni, Sabbadini), o mostruose, deformi, accecate (Bordone, Cuniberti, Cacciari, Orsi), massificate nella loro riproducibilità (Candi), o poveri aborti di legno (Leonardi), sezionate, frazionate, sovrapposte, (Galimberti, Terzi, Manelli), mutanti in dissezione poliprospettica (Sessa), messe alla gogna nel cemento (Rivalta), generatrici di rami secchi e di corna di mani (Parmiggiani, Finotti) o sotto forma di imperturbabili civettuole teste d'uovo, impotenti (Della Casa). Anche terrorizzate (Filippi) o sulla difensiva, come antichi cavalieri, in elmi integri (la Coppia di Sara Bulzoni), o penosamente rattoppati (Nicola Zamboni), comunque teste irriconoscibili nel Dialogo di Raspanti. E potremmo continuare in questa galleria degli orrori, che però ben può essere riassunta dal lavoro di Wainer Vaccari: una testa di bronzo tutta puntelli e sostegni, sfigurata, rabberciata alla peggio, per di più con un fendente che gli penzola da un lato, ficcato fin nel cervello, e con una strana ferita sulla guancia sinistra. La fessura, si direbbe, di un salvadagnaio. E c'è da scommettere che a poterci buttare dentro una monetina, suonerebbe vuota. Sarà per l'amara consapevolezza di questi frutti di un Sistema folle che stritola qualsiasi autentica resistenza, che Cremaschi, provocatoriamente, nel proprio Autodafè, si è tolta la maschera ufficiale d'artista, l'ha appesa ad un chiodo (sic!) sulla cornice, e ha lasciato il quadro libero e sgombro. Come a dire: la rappresentazione è finita. Andiamo in rivolta.


(1) Pensées in libertà vigilata sono stati pubblicati, su Bollettario, a partire dal 21 marzo 2000 fino all'ottobre 2001 (quotidianemente nei primi due mesi, poi saltuariamente).



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    ultimo aggiornamento: sabato 21 settembre 2002 2.13.13
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