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Recensione


Non bastano più le parole

di Gerardo Trisolino

da Quotidiano
mercoledì 6 aprile 1988


Adriano Spatola - nella introduzione- ci fornisce le indicazioni per la lettura di queste poesie di Nadia Cavalera: "Amsirutuf:enimma", tam tam, 1988 (stampato dall'Italgrafica di Oria):"Sono quattro gli elementi che compongono la struttura della pagina di Nadia Cavaliera: il segno, il rigo musicale, la scrittura e la scrittura rovesciata". Spatola conclude che la raccolta va considerata un'"opera globale".
Nel variegato panorama poetico dei nostri giorni la Cavaliera esordisce quindi in una maniera ferocemente polemica contro la poesia fatta di sole parole. L'ideologia sottesa a simile operazione pare essere la seguente: il "verbum" da solo non basta più perché logorato dall'uso e dall'abuso; è necessario l'ausilio dei segni grafici, dei tracciati geometrici, delle ragnatele di linee, e del pentagramma ad organizzare una globalità smarrita, come rivendica la poesia visuale. Non solo - pare aggiungere la Cavaliera - produce di più la scrittura rovesciata di quella consueta.
Le pagine di quest'opera sperimentale non si chiamano più tali bensì tavole, tratteggiate quasi per essere tagliate con le forbici e usate autonomamente. Lo spazio è così organizzato: in alto a sinistra c'è il testo poetico - diciamo - tradizionale intersecato, tagliato, depurato, scheggiato dai disegni geometrici che riempiono il foglio e che al contrario- non intaccano il testo in basso a destra che è l'esatto rovesciamento dell'altro. Non capita spesso di dover "descrivere" una pagina di poesia tanto l'operazione è insolita.
Da parte nostra ci limiteremo a tentare una interpretazione della sola scrittura tradizionale perché inabilitati a giudicare i tracciati e il rigo musicale a piè di pagina, designata non dalla solita numerazione, ma da una data che indica l'anno di composizione.
Leggendo i testi - almeno quelli che significano ancora qualcosa - si viene subito colpiti dalla loro brevità ungarettiana, da un'ansia di vita subito lacerata dal sentimento della morte o, per rimanere nel richiamo alla poesia novecentesca, della bufera: si sentono i passi del vento che spingono all'indietro, che impediscono di avanzare. Ed è probabilmente questo sentimento dominante a produrre non tanto dei versi conchiusi, quanto piuttosto dei singulti sia pure non onomatopeici come quelli della "Fontana malata" di Palazzeschi. Ma che la cifra dominante sia quella ungarettiana non è difficile scoprirsi: anche per Cavaliera la morte si sconta vivendo ("vivere/perché devo morire"): "mi distendo nell'aura di una terra assolata" (ma il testo è poi ingabbiato da un recinto col filo spinato. Addio sogni di poeta), "un'alcova di stelle/per coricarvi me stesso".
Sono brevi illuminazioni improvvisi squarci luminosi che fanno da salvataggio a quei "non-sense" seminati nei testi, parole vuote, semplici accostamenti fonici, oggetti inutili ( "ma gli occhi riescono/ la strada scivola/ che si trascinano").
Che dire di quei brani rovesciati? Sembra quasi- per citare Davide Lajolo - di vedere l'erba dalla parte delle radici. Niente di più. Non ce la sentiamo di condividere il giudizio di Spatola, secondo cui il rovesciamento non muterebbe granché il significato dei sintagmi. Altra cosa è - per intenderci meglio - la lingua di Pluto del VII dell'"Inferno" dantesco. Lo sperimentalismo di cui pure abbiamo tanti esempi storici, dal futurismo alle neoavanguardie, in Nadia Cavalera si radicalizza, va agli antipodi. Si intuisce, infatti, l'ammiccamento della donna poeta (guai a chiamarla poetessa) verso il testo rovesciato che respira liberamente, ma - ahimè- vanamente e chissà se non esista una recondita, inconscia analogia con quella bellissima dedica in latino al figlio morto neonato prima ancora che la luce potesse ferirgli gli occhi ": tam brevis humanae vitae scintilla (:dolentis mea stilla)".
I sogni svaniscono all'improvviso, anzi vengono rapiti furtivamente, e alla donna poeta Cavaliera non rimane che coglierne qua e là i cocci, le schegge nascoste tra le cose e le parole che non significanop più nulla: "gente è morta sognando/vivere e non sognare/e non sognare una vita/voglio vivere un sogno/e ci troviamo a dormire per sempre/furtivo precipita il tempo/io voglio sognare vivendo/ed io vivere non sognare/…".
In quasi tutti i componimenti manca un verso, sostituito dai puntini. Che sia lì la chiave della poesia della Cavaliera, nelle cose non dette perché non più dicibili? È un verso sottratto all'ovvietà, all'ordine dell'attesa scontata, alla necessità delle cose già risapute, al "dejà vû". È una sorta di rivincita della poesia contro la banalità quotidiana.




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ultimo aggiornamento: martedì 30 novembre 2004 16.50.49
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