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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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ESTRATTO

La santità dei santi padri…

Rosaria Lo Russo

Bollettario n°40

(esergo de La Libellula. Panegirico della libertà di Amelia Rosselli)



Più che come novissima (c'erano già la Rosselli, la Vicinelli…) mi si può praticare stellina supernova abbagliante da palchetti nostrani voce contro il solipsismo maschilista-patriarchista ovvero contro lo stilnobbismo letterario dei fiorentinissimi (ovvero dei rappresentanti del neo-orfismo ermetico, della parola innamorata di sé). Ovvero una operante continova seduzione incestuosa contro i padri divoratori e divorati: Dante, Foscolo, Carducci et alii melodrammatici padri, fino poi ai Campana, Montale, Giudici e tutti i musificatori a oltranza. Me, musa a me stessa, me dicente è la Figlia del Padre (la demitificata parthènos del Padre dei Padri), che parla in prosopopea scocciata, da aggressiva; i musificatori essendo mummificatori di Lei, la donna, l'eterno Tu dell'Io. Allora me che parla è un Tu che dice Io: parodia postfemminista della tradizione poetica nostrana.
Allora più che i padri traditori da tradire ebbi e ho da richiamare in causa tre padri allevatori e mallevadori: il primo fu Eugenio Miccini, che mi scovò giovinetta da casa. Il secondo Pagliarani, la cui "pietà oggettiva" sposo come sentimento del tempo e dello spazio poietico, il terzo Balestrini, che mi ha capita al volo ed emancipata a quella poetrice che sono: performativa, vocal-ancheggiante.
Senza il fiorentino gruppo 70 non avrei saputo, da ragazzina, che la poesia è fatto, concreto e non astratto; senza "Ricercare '97" (ovvero Balestrini, Barilli, Gruppo 93) non avrei preso coscienza del mio operare. Sono loro che mi hanno portato dall'istinto intuitivo alla ragion pratica del poetare. Nasce grazie agli allevatori la mia poietica: sono loro che, materialmente, 'me lo fanno fare', invitandomi a letture, dibattiti, convegni; che mi fanno uscire dal silenzio (che come dimensione poetica non mi apppartiene).
Ed ora, finiti gli abstracts del discorso, mi vado a spiegare meglio.
Questo invito mi invita a ripensare che tutta la mia storia con la poesia, come la mia piccola impalcatura ideologica e la mia grande poietica poetico-critico-teatrale-traduttoria (più grande di me) di poetrice (come già furono poetrici, ovvero poetesse performative la Rosselli, la Vicinelli, la Sexton, - che anche se stava all'altro capo del mondo avrebbe benissimo potuto far parte dei nostri gruppi, per atti e cronologia -) fa parte della magnifica temperie culturale che stiamo ricompattando e timidamente celebrando in questi giorni.
Questa temperie ha avuto e ha su di me due influenze importanti:
1) la derivazione della mia poesia più dalla cultura teatrale che da quella strettamente letteraria (mi sono laureata in storia dello spettacolo a Firenze fuggendo dalla cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea allora tenuta da Bigongiari)
2) il rapporto inscindibile e militante fra poesia, vita reale, critica e traduzione nella mia scrittura.

Quando ero adolescente, a Firenze c'erano il Gruppo 70 (Miccini, Egidio Mucci, Pignotti) e gli ermetici. A cena a casa dei miei venivano quelli del Gruppo 70 e parlavano di tutto con grande arguzia, intelligenza, spirito di sinistra (mentre i miei sono borghesissimi, solo che mio padre ha sempre corteggiato le arti d'avanguardia), e i loro discorsi di cultura generale, le loro opere, toglievano inibizioni e sfatavano luoghi comuni. Mi divertivo ad ascoltarli, mi sembravano più vicini alle mie confuse esigenze di protesta e trasgressione. Poi al liceo ho avuto un prof. dii italiano, Domenico Greco, molto di sinistra, che aveva un solo difetto: preferiva Leopardi a Dante; ma leggeva benevolmente le mie poesie, mi levava solitudine, e mi consigliò di leggere La ragazza Carla di Pagliarani: una botta allo stomaco, ecco, quel libro mi parlava una lingua che capivo e che soddisfaceva il mio bisogno di emozioni da ragazza che studia al liceo classico. E poi facevo una scuola di teatro, e vidi e conobbi e amai Piera Degli Esposti, Carmelo Bene, Tadeusz Kantor, Leo De Berardinis, i Magazzini Criminali - e godevo molto, era eccitante al massimo - e frequentavo coetanei musicisti: così ho scoperto gli "Area" e Demetrio Stratos - enorme poeta sonoro - . Scoprivo le performances degli anni 70 e primi 80. E verificavo le mie passioni parlandone a cena con Miccini, e andavo ai concerti pop-rock. E cantavo canzoni popolari napoletane e Brecht al collettivo femminista. Così ho comunciato ad arrangiare qualche poesia anche io, avendo il mente il teatro e la moda della phonè.
Mi muovevo però ancora piuttosto a caso e il primo anno di università mi son messa a seguire un corso di Bigongiari su Montale. Era stupefacente sentir leggere Montale da Bigongiari e Macrì, che ogni tanto saltellava sui Mottetti, ma poi le poesie ermetiche che ci proponevano ai seminari (a parte quelle di Alfonso Gatto e Giorgio Caproni) le trovavo pomposamente incomprensibili, affette da narcisismo: non mi piaceva la figura del grande poeta vate e isolato, le anime belle francesizzanti mi sembravano stantìe. Il loro purismo, patriarchista, stilnobbistico e passatista. Il loro cattolicesimo astratto e perbenista non soddisfaceva la mia urgenza di misticismo corporeo. La loro poesia pura era priva di esperienza, termine dalle valenze politiche, etiche e mistiche, che per me e il mio poièin vocal-erotico è fondamentale. L'idea di phonè di Bigongiari era troppo vaga e legata alla fede in un verbo verboso, non da poveri di spirito. E io capivo invece il bello dell'essere poveri di spirito, ingenui e stupiti. Anche stupidi e giocosi. Gli ermetici prendevano la poesia fin troppo sul serio, cosa che mi pareva ridicola, anche anacronistica. Io faccio della parodia anche contro questo assurdamente oracolare patriarchismo fiorentino. E mi rifaccio agli abbassamenti linguistici dei rappresentanti dei Gruppi 63 - 70 - 93, però il mio barocco-informale e le arditezze formali iperletterarie sono un amatissimo retaggio delle lezioni cattedratiche del 'nemico'. Bisogna amare il proprio carnefice se si vuole entrarci in dialettica e rispondergli senza o per le rime.
Nel frattempo, tra l'altro, gli amici Mucci Miccini Pignotti mi introdussero benevolmente all'esistenza della semiotica, mi fecero conoscere Eco, Lotman, e poi Kristeva. Ecco una critica che funzionava, una tèkhne, una tendenza ermeneutica sul fare letterario e poetico come artigianato linguistico: via dal veterosimbolismo dei fiorentinissimi e via libera alla semiotica attuata dapprima sugli studi storico-teatrali. Le idee pure e astratte del saggio bigongiariano Tra phonè e graphè - uscito su un numero di "Paragone" dell'83 - trovavano esiti praticabili e fondamenti scientifici in un volume de "Il Verri" - Phonè Semantikè -, uscito nel '93, fondamentale per la mia formazione. Devo dire che ho assorbito molta sonorità poetica dalle letture montaliane della balena Bigongiari e del saltellante pesce-farfalla Macrì. Ma da quel numero de "Il Verri" mi è venuta la conferma teorica convincente del mio sentire vocale, e la passione filologica, provata all'università, e riconfermata e maturata nel confronto coi miei gemelli sperimentatori e compagni di viaggio del Gruppo 93: Marco Berisso, Biagio Cepollaro, Lello Voce, animatori di "Baldus", che ho conosciuto, con stupore e affetto reciproco, a "Ricercare '97". Mi erano finalmente chiari e definitivi il rapporto poesia-critica-filologia, la scelta del dibattito in un gruppo di lavoro e della dialettica interna, inter e intra-testuale, fra la mia saggistica teatrologica non storicistica ma semiotica, la critica poetica e il mio stesso poetare.
A coronare il tutto, dieci anni di redazione nella rivista di traduzione e comparatistica "Semicerchio": isola fiorentina di rari intellettuali non provinciali e finissimi filologi. Grande amore antiaccademico - almeno per parte mia - per le letterature antiche e per il medioevo occidentale e orientale, e per la comparatistica, e per l'arte artigianale del tradurre versi in versi. Fine finalmente del modello operativo obsoleto del solipsismo patriarchista.
A questo punto, a parte i vecchi baroni inattingibili, nemici erano tutti i parolai infondati innamorati del loro veteroliricheggiante dire senza fare. Facevo parte ormai di una fantomatica neo-neoavanguardia di terza ondata in lotta contro la parola pura e assoluta, contro la società accademica bellettrista. Ma in realtà mi sentivo piuttosto una sperimentatrice facente parte di un gruppo ancor più fantomatico, e che mi sto inventando in questi anni: quello delle scrittrici di versi, o poetrici che dir si voglia; ovvero intravedo un controcanone femminile, una linea di poesia femminile individuabile per modalità stilistiche e tematiche, di cui nessuno parla e forse sa. Di questo la mia saggistica si sta adesso occupando, come controcanto del mio canto: un poièin che vuole andare oltre le contrarietà avanguardistiche e proporre stili e semantiche nuove, a partire da questo contro. Profondamente influenzata dai padri fiorentini Dante e Dino, loro amante e praticante, avverto la loro santità come amoroso pericolo di belly-cosità, per la mia scrittura femminile, che non è mia, è già di Amelia Rosselli, la belly-cosità. Belly, pancia, in inglese. Variazioni belliche per me significa variazioni, in senso musicale e poetico, di cose attestate nel profondo della corporeità: che poi è l'anima femminile. Mi avvicino sempre più all'anima sperimentatrice della musica verbale di Amelia, al suo parodiare senza scherzo, alla sua scommessa totale nel testo scritto che si autoperforma. Perché di Dante e Dino padri (e poi Foscolo, Montale, Giudici, Carducci eccetera) sposo la lingua sublime per metabolizzarla e per invertire (pervertire) il soggetto lirico del dittato, invertire il punto di vista poetante. Rimetabolizzando la lingua poetica tento di superare, con l'insufflaggio di altri valori più cosali, referenziali, appartenenti al mio transpersonale vissuto femminile, i valori della tradizione, i significati letterari mummificati del patriarchismo, il cui fondamento sta da sempre nell'uccidere (nel suicidare quando è in carne ed ossa) la musa. (Penso alla odiante compassione che prova la Rosselli per l'Esterina montaliana ventenne, ne La libellula…). La donna, il famigerato Tu-oggetto femminile, è da sempre una musa che, in quanto tale, deve essere morta o assente per funzionare, per produrre poesia, nella tradizione lirica occidentale. E' gli "occhi celestiali" (ma di vetro…) che si/ci attribuisce la Rosselli, l'emblema della nostra voluta mortuosità: faccio nascere dal suo panegirico della libertà - geniale anticipo di tutto, se si pensa che l'ha scritto nei favolosi Anni Cinquanta del trionfo del perbenismo borghese-cattolico e perciò stilnobbista - la coscienza antipatriarchista del soggetto femminile in processo esistenzial-poetico. Soggetto e non più oggetto all'interno della tradizione lirica nostrana: la voce femminile prende la parola dai padri e ai padri. E non volendo-potendo essere Io oggetto (Tu) morta, me@rosarialorusso.it deve con tutti i mezzi linguistici a disposizione, compresa la voce recitante, combattere, farsi e fare spazio, re-agire, re-esistere a petto della seduzione mortifera della lingua dei padri ma con la lingua stessa, inventando neoformazioni stilistiche e neologismi furiosi che chiarifichino la presa di posizione poietico-ideologica che ha mietuto vittime eccellenti - da Gaspara Stampa a Sylvia Plath e Anne Sexton - ed anche eroiche come la Rosselli (eroiche perché a differenza delle sue predecessore sposò la fluvialità poematica dei padri, osò, fra le prime, insieme alla Vicinelli, l'epos), suicida in tempi apparentemente meno sospetti di ghettizzazione culturale femminile. Così facendo, ragioni linguistiche sperimentali e ragioni po-ietiche d'avanguardia si fondono e si confondono nel mio discorso melologico rossellianamente poematico. Il quid, per entrambe, è l'affronto della lingua dei padri - subìto, patito - e il coraggio del confronto con essa, senza cedere alle false mistificazioni femministicheggianti che ci darebbero ad intendere che la poesia è lingua della Madre (convinzione farraginosa, frequentissima in area di critica angloamericana specialmente). La lingua della poesia è lingua paterna, da non subire passivamente come fa la neometrica Valduga, stanca epigona dei classicismi, ma da metabolizzare inventando, a partire da essa metabolizzazione, una prospettiva poietica nuova. Se il problema della lingua dei padri è letterale nella trilingue Rosselli, nel mio caso il problema è affrontato allegoricamente. Ecco perché recupero sperimentalmente le configurazioni femminili eleborate all'interno della tradizione poetica (e teatrale) classica: retoricamente, sia come forme che come contenuti. Epos, poema, i miti femminili, gli abusatissimi semantemi e stilemi, ancora non sono stati ben digeriti dal sistema socioculturale in quanto idee di genere maschile, ancora non è stato chiarito - è l'elaborazione in atto della poesia femminile contemporanea internazionale - il rapporto delle autrici di poesia con essi.
La ricerca collettiva e la disposizione morale, istanze comuni dell'avanguardia contro i canoni obsoleti dell'accademismo letterario, e il lavorìo continuo di traduzione di una rivoluzionaria come la Sexton, mi hanno ulteriormente confortato ad agire sui miti letterari anche in poesia, come già confusamente nelle mie prime prove poetiche e poi nei miei saggi pirandelliani (accademici, ma con disinvoltura metodologica), e poi di nuovo, e con ancor più consapevolezza dell'obiettivo 'politico', nella saggistica militante sulla poesia femminile. La sperimentazione si è diretta decisamente sulle mitificazioni femminili, nel modo preponderante di una visione parodica tragicomica di tali mitologemi, in poesia, performances, critica, traduzioni.
La scelta della mitificazione destrutturata (in poesia e in traduzione) e della demitificazione strutturata secondo modalità di approccio teorico semiotiche (in saggistica) si oppongono culturalmente alla mistificazione neo-orfica degli ermetismi accademico-poetici, della lirica innamorata del poetese e dello storicismo teatrale apparentemente neutrale e asettico esperito negli studi universitari, ma con un recupero del pàthos e della pietas che si discosta dal cerebralismo, altrettanto asettico, dell'avanguardismo programmatico (altrettanto accademico, anche se politicizzato). Il patetico e il sublime (alto o basso poco importa) rientrano nel mio progetto poematico, accolti senza remore di gusto ma stritolati dal grottesco e dalla parodia, che però hanno valenze tragiche nell'ordine dello storico. La poesia, criticamente autoriflessiva rispetto ai propri mezzi espressivi e tematici, ri-incontra la liricità (all'interno però del poema, del tentativo epico di cui furono già eroine sacrificali la Rosselli e la Vicinelli, qui da noi), pervenendo ad una rifondazione poetica femminile (una rifondazione postfemminista!) a partire dalla epica "pietà oggettiva" di Pagliarani, da sempre per me maestro e modello di vituperio, satira, improperio e solenni, dolcissime, commozioni. La contaminazione, la citazione, i cadaverini rianimati della realtà oggettiva, rendono l'aulicità fiorentineggiante oggetto di ripudio grottesco ma anche di straziata nostalgia per il discorso dei padri morti ma che ancora evidentemente non giacciono sepolti in pace, lasciando in eredità la Beltà come qualcosa di impedito, interdetto e conato. La letterarietà, la storia della letteratura italiana e europea, appaiono in forme allegorizzate e prendono una nuova veste ideologica per il solo essere enunciazioni epifaniche mozzate, castrate. La corrosività ironica e il tentativo di una rifondazione femministica delle immagini femminili - altrettanto ironico e di cui si suppone il fallimento per mancanza di orecchie in un'epoca indifferente e qualunquista come la nostra - interroga la scrittura sul perché dello statuto suicida della poetessa sperimentatrice: figura da sempre condannata ad essere tale per poter dimostrare di essere contro il sistema. Le spererei solo consapevoli professioniste poetrici le 'mitiche' poetesse, non più destinate al gesto estremo per mancato ruolo social-accademico, per mancata identità professional-esistenziale.
Queste ipotesi le ho sviluppate a partire dagli studi filologici sul barillianamente non-naturalistico Pirandello, sulle sue sperimentali figurazioni mitopoietiche del femminile, e poi traducendo e leggendo le poetesse contemporanee di area anglosassone, e imitando la loro scommessa performativa ed esistenziale totale (e purtroppo troppo spesso autodistruttiva, per immaturità storica, credo). La poietica delle poetrici contemporanee è la mia speranza sperimentale di avanguardia storica futura, confortata dalla coscienza dei nuovi padri e fratelli amici (se non sodali) nella ricerca, e dalle molte amiche, madri, sorelle che fanno il mio stesso mestiere: ché, anche se poco visibili-udibili, siamo tante e vorremmo esistere senza continuare a subire la colpa del necessario e tanto ancora tabuizzato parricidio.



Intervento alla tavola rotonda "Il Gruppo 63 e la ricerca poetica successiva" del convegno "Il Gruppo 63 quarant'anni dopo", Bologna Teatro Arena del Sole, 11 maggio 2003.




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ultimo aggiornamento: lunedì 26 maggio 2003 18.27.19
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