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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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ESTRATTO

Lettera a Noè ovvero incremento della speranza
Dedicata al mio amico Taron Sahakyan

Artem Haruthyunyan

Bollettario n°38


Oggi è capitata una storia strana:
ieri mi ha fatto visita Noè in persona,
lo stesso che costruì la zattera,
erano le 4, il tramonto
calato dopo la manifestazione
aveva avvolto ogni cosa nella nebbia.
“Noè - gli ho detto - sei magro, assetato,
ma pieno di speranza”, anche se il diluvio
era appena cominciato,
e sull’acqua già ondeggiavano
idee, città, comizi,
sacchi rigurgitanti di sospiri di gente senza casa,
scrivanie di burocrati irte come l’Himalaia,
scimitarre turche marchiate dal genocidio,
parrucche di stimati giudici,
dove c’era denaro e il verme della tomba,
occhi spalancati
per le fucilazioni staliniane,
che non vedono nulla se non gli stivali
dell’assassino,
il mondo intero aveva sellato l’acqua del diluvio come un cavallo
(unica via di salvezza dopo infiniti peccati)
e si muoveva verso l’Ararat ignoto,
ma io sono ancora seduto al tavolo fatto
con l’arca di Noè,
e Noè l’ha subito riconosciuto come suo
e ha levato un grido per affrettarsi alla partenza.
I
Sul tavolo fatto con una trave dell’arca di Noè
fogli, righe grosse tracciate con inchiostro,
note quasi inondate di fumo,
amari pensieri erranti,
immagini dell’Artsach.
Ecco cosa può fare il barbaro -
scrive il giornale e pubblica una foto
in cui appena si distinguono l’un dall’altro
il corpo e il legno inceneriti.
Fuori è la stessa cosa,
il potere ha la sua via e la sua forza,
automobili che corrono veloci e cattive notizie,
le proteste si contentano di canti
e manifestazioni,
benché la fabbrica di nomadi primitivi e grandi stati
lavori notte e giorno (il napalm è pregiato)
e non c’è premura per la protesta
che presto tornerà a casa lungo una strada bagnata di pioggia.
II
In dormiveglia, sento il sole,
sento il dolce, polveroso profumo
delle tende, in cui ti puoi smarrire,
se guardi a lungo al caos di fuori,
perdendo la percezione della casa.
Per strada passa ora una banda,
come lo svolgersi
della fascia di un’invisibile ferita,
perché la ferita sanguina ancora,
perché ancora dura il genocidio
e si trascina fino ai nostri giorni,
e la donna turca che piange il suo gatto ferito
non vuol sentire
di milioni di armeni
torturati dai suoi antenati turchi,
e tutto procede bene in questo mondo,
solo la Vittima
rumoreggia dentro di noi senza pace,
senza poter entrare né uscire.
III
Grosse righe tracciate con inchiostro
nascono, salgono al cielo,
quasi note tra fumo e macerie,
sento il sole primordiale,
il Bene e il Male si scontrano,
nel cortile un Dio stanco
distribuisce qualcosa ai bambini,
e sorride,
entra un uomo che porta una notizia
e ogni moto è segno, senso e attesa,
come l’arteria bianca
che è nella tua mano, nella storia
e proprio dentro di noi.
Ora questa voce tremolante levatasi dalla disperazione,
questa luce tremula,
ogni istante spiega e muore...
IV
Ma che visita inattesa,
ah, mio tribolato Noè,
scendi dalle travi da tempo fessurate,
sono l’unico passeggero della tua arca.
Le parole non sono capaci, ora, di creare un Salvatore,
che Noè si faccia avanti e costruisca una nave di quercia
(puoi, amico della mia visione e della mia cucina?)
e che si metta in viaggio,
na na na na
(aspetta, mio caro, questo è un canto o un ballo?)
no, che Noè sappia chi salvava
e vada a Istanbul per concludere splendidi affari,
ma prima della visita lascia che veda
il fosforo delle ossa degli armeni a Der Dzor
e negli altri deserti assassini,
che compri il giornale e legga dell’Artsach,
che entri in farmacia e compri un farmaco per lenire il terrore,
Noè, ti prego, mordi quest’arancia
che l’armeno non vede mai,
Noè, come sta il cuore
durante il viaggio Erevan-Boston?
Noè, non lasciarmi in questo mondo di pazzi,
ho un biglietto per la tua nuova arca,
dall’Ararat al Grand Canyon,
Noè, mordi quest’albicocca, che ti darà
la forza della nostra terra,
vai al cabaret, per benedire il miracolo
dei corpi che hai salvato,
Noè, non c’è speranza né per la Montagna, né per l’acqua
e neppure per le belve,
e la gente s’è nascosta
nelle sue case ben sprangate,
solo la mia preghiera si diffonde lentamente,
l’unico mio desiderio è vagare nell’ignoto.
Noè, mio buon politico,
non speravo in una tua visita,
permettimi di salutare i parenti,
l’Ararat si avvicina e l’acqua s’alza,
al di là dell’acqua non vedo nulla,
ma ho intenzione di vivere,
devo raggiungere l’altro lato della montagna,
oltre il quale non c’è più montagna.
Noè, le mie robuste spalle del Gharabagh spingono
la tua Arca verso acque aperte,
verso il Diluvio del Nuovo Amore...
V
Noè, il problema è l’acqua, la sua abbondanza
e la mia partenza verso l’ultima eternità,
ma tu hai un lungo cammino da percorrere,
e io sto alla soglia della tua zattera.
Nell’immensa sala del Federal Building,
dove mi ero recato per ricevere, dalla mano
di angeli divenuti burocrati,
il mio generoso Social Security,
è appena passato un gruppo di bambini
con le mani tenuemente legate tra loro,
accompagnati da una donna
che sorrideva, come Maria Madre di Dio,
ma li aveva legati perché non fuggissero,
prenderemo con noi solo loro, Noè,
per viaggiare sulla zattera
(con la corda legheremo travi, non mani),
Noè, non abbiamo bisogno di cibo né di morbidi cuscini,
benché la via d’entrambi sia irta di pericoli,
ci nutriremo solo dello sguardo dei cuccioli di belva,
che subito percepiscono il bene e il male nell’uomo,
e diventeranno uccelli se li offendiamo.
Noè, la mia iniziativa è reale
quanto la tua creazione dei popoli,
la nostra zattera diventerà un nuovo continente,
dove ciascuno avrà
un conto corrente della felicità
e un anticipo d’immortalità,
canteremo il mare, il sole
e l’uomo che vaga smarrito sull’arca,
saremo reali come nessuno,
l’aria serale non avrà traccia
della perdita,
la colomba morente porterà l’Herald Tribune,
e anche la mia rivista preferita, il mio Garun sempre attuale
con le ultime notizie della mia terra tenace,
mentre il mondo cerca di allontanare lo sguardo
dal popolo antico,
perché non abbiamo una goccia di petrolio,
e questo è la pietra angolare per gli adiposi boss
delle compagnie petrolifere che mangiano al ristorante cinese
(appena entrati chiedono:
“Che nuova pietanza avete per noi?”)
Noè, io ritornerò, superando gli oceani e le rocce
della muscosa tentazione del mio spirito,
entrerò con passo fermo nel salotto tiepido
di gigantesche città, dopo il diluvio
che ha purificato ogni cosa,
e nelle periferie morenti simili al purgatorio
(dove la cucina è l’unico luogo per addomesticare
le notizie ferventi di guerra).
Noè, il nostro volo biblico oltrepasserà
l’occhio cisposo dei radar
e l’alta caduta di un uomo
alle cascate del Niagara.
Passeremo fra dinamici
corpi americani,
che mangiano in fretta una pizza meticcia,
restando in piedi,
anche se posto a sedere ce n’è finché vuoi,
talora sentiremo voci di ninfe che lavano i panni,
mentre intonano canti di separazione
fondendo le voci a quella dell’acqua salata;
talora ci faranno visita
gli angeli di Metzarents, alla fine del ventesimo secolo,
gonfi di birra, come cantanti d’opera,
e la dolcezza della montagna biblica
ci tormenterà senza fine,
ci renderà insonni notte e giorno,
e ritardando la fioritura
le piante alpestri dell’Artsach attenderanno
che il pericolo cessi,
ahimè, dopo sarà tardi!
Ora cani poliziotto senza numero
sono per strada intabarrati,
nel mio sogno sbranavano
una donna cristiana inerme, e durante il giorno
le ultime notizie in televisione mostrarono quell’istante
come fosse attualità.
Noè, sotto la zattera all’improvviso l’acqua del diluvio ha riflesso
un territorio rosso sangue,
procedi con cautela,
questi sono i sei vilayet armeni
macchiati dal sangue del genocidio,
Noè, ferma il tempo con la tua zattera,
se puoi, devo contare i denti del mostro,
ma aspetta, Noè,
la nebbia venefica s’addensa
e non vedo più l’Ararat della salvezza,
forse mi hanno dato un biglietto sbagliato alla Levon Travel,
Noè, ti prego trova un amico
nell’Oceano Atlantico della vita,
Noè, tutto questo deve
cessare immediatamente,
la nostra zattera va nella direzione opposta.
Lontano vedo la ritmica marcia di popoli armati,
nella festa danzante fatta con ossa di piccole nazioni,
oggi fiorisce un tempo imperfetto
sul quadrante frantumato del mio solo orologio.
Noè, ci siamo sbagliati,
la metro era più adatta per trovare
una nuova montagna,
Noè, se continua così, resterò solo,
senza moglie e senza figli,
solo sulla zattera, belve affamate
che pretenderanno di toccare la loro riva,
altrimenti saremo loro prigionieri,
ma l’Arca urta contro la Montagna antica
e va in pezzi come porcellana.
VI
Mi sveglio in una casa sperduta
(un cane, un gatto e pazzi infiniti).
Mangiano neve anziché cibo,
assaporano anche il movimento dello scoiattolo sull’albero.
Gli scoiattoli si muovono rapidi, a scatti
(certamente quelli che si sono salvati dal diluvio)
e arrestando la loro avanzata,
diventano eroi nani tra il fogliame.
E l’albero è enorme, ha mille rami,
alla mia finestra diviene colomba,
l’altra parte della quercia (forse la parte misera)
china il capo come un santo, per pregare in silenzio,
più in alto è il cielo, dove diresti che un vetro
protegga il blu, fazzoletti invisibili.
Tra poco ci sarà
un’eclissi di sole
e quest’immagine
si dissolverà nell’aria.
Postscriptum.
Noè, se puoi prendi sulla tua zattera
anche l’Artsach.
Noè, io sono del Gharabagh e spero
non rifiuterai la mia richiesta,
come un avo dei miei avi,
vidi il tuo ritratto appeso nell’antica casa del nonno
nel verde paradiso di Shushi,
che ora è l’Arca della libertà nell’universo,
benché il diluvio sia da tempo svanito.
Noè, ora c’è un numero infinito
di scintillanti sedie d’acciaio attorno a me,
a cui attaccano corrente elettrica
(anziché mandare elettricità in Armenia)
e l’uomo che si siede diventa orrore.
Noè, non mi serve la green card,
anche senza, io sono in grado
di rinverdire con l’ombra del gelso ridente
questa disumana società di pietra.
Noè, ti avverto,
dopo il diluvio vogliono di vendere
l’acqua in piccole bottiglie a Broadway,
come nuovo drammaturgo
e reliquia di una favola evangelica;
e metteranno all’asta da Sotheby
lo scheletro delle belve che hai salvato.
Noè, ora nel mondo ci sono mille volte
più uomini che carte d’identità
(si aspetta un nuovo diluvio),
più prigioni che case,
più spine che rose
più scimitarre insanguinate di foggia turca
che chiese e croci,
più tasche con buchi rammendati che denaro.
Noè, devo serbare intatta la mia interiorità
e la mia lotta dev’essere con i mari di Dolore,
tanto reale e buona
quanto questa scia d’acqua che cola dalla zattera.
VII
Ma ora, nel mio nuovo ufficio di Cleveland sono circondato
da alteri professori americani,
per i quali nulla esiste al mondo
tranne l’antica letteratura inglese,
sono circondato da libri sui santi inglesi
e da preghiere e suppliche in caratteri latini
che assai passivamente agiscono fino a oggi.
Al mattino presto sono circondato
anche da volti rugosi e sofferenti, ma orgogliosi
di vecchie negre ancor più nere
sullo sfondo innevato.
Noè, dobbiamo resistere alla tentazione del popolo,
quante sono le Arche che navigano nei nostri cuori,
anche se i mari esausti fanno lo stesso sogno:
l’umanità salvata sulla vetta dell’Ararat!
VIII
Noè, questa zattera non è nostra, ma di tutti,
questo tipo di zattera è un segno d’amore, raccolto e vigoroso,
e l’atlante dell’amore ci porta in una terra difficile,
dove vento e tempo vagano insieme,
mano nella mano, agitando
la banderuola della sfortuna.
Ora di corsa, ora immobili,
scuotendo tetti e finestre
di città lontane,
dove ogni giorno uno porta l’altro in prigione,
la notte tubano come colombe
le macchine della polizia,
la nebbia mattutina si diffonde
come un crudele sorriso sotto la cintola
di edifici dai molti piani.
Noè, tra i costruttori della zattera ho visto
alcuni amici armeni,
ora combattono in Artsach,
la zattera, mi pare, siamo proprio noi, che stiamo qui,
Noè, fa’ correre la zattera più velocemente,
in lontananza vedo navi da guerra,
sono i figli viziati della grande potenza
e sono capaci di qualunque cosa
gira la prua verso ost-end e aspetta,
abbiamo bisogno di salvezza,
solo gli uccelli e le alte nuvole
hanno assicurato la nostra zattera,
nessun altro ha voluto riconoscerci
e l’Ararat, che sempre era al nostro fianco,
si muoveva con noi o appariva
in lontananza come un miraggio,
d’improvviso scomparve senza traccia.
Ora invece appare nel mio sogno
con la vetta insanguinata, i fianchi esausti,
l’immacolata fronte coperta
dalle lacerazioni del genocidio,
squarciando il velo di un’esperienza di vita ossificata,
si muove come Mher il Piccolo
fuori dalla Roccia del Corvo,
io sono sdraiato sulla zattera in mezzo ai mari
e sogno un’Armenia da mare a mare.
Vieni, Noè, trasformiamo la zattera in un nuovo Continente
(lo so, ogni mia riga riecheggerà poi
nel cabaret celeste o sarà criticata
nelle indifferenti sedute di piccoli deretani
delle marmoree Accademie sotterranee).
Noè, anche l’inventore del tempo ne è divenuto prigioniero,
e sulla tua zattera tutto va verso
l’Ignoto.
IX
Noè, scrivimi qualche riga
e prendimi a far parte del personale
del Ventunesimo Secolo,
rammenta che sto ancora alle falde
gelate dell’Ararat,
rammenta che posso ancora viaggiare con te
dopo il diluvio atomico.
Il mio indirizzo:
Ararat - Centro salvezza per il diluvio,
apparso un istante a Cleveland,
senza passaporto, senza green card
(per cui tre mesi imprigionato in una torre)
Artem Haruthyunyan,
Casella Postale...

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ultimo aggiornamento: mercoledì 24 luglio 2002 12.43.29
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