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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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ESTRATTO

Nadia Cavalera, Gaetano Delli Santi, Carmine Lubrano, Francesco Muzzioli, Sandro Sproccati

"DIALOGO (da SPA, di prossima pubblicazione)"

Bollettario n°34/36


Lubrano:
Se questa è la civiltà dell’immagine, se tutto è ormai un videoclip, dove la (video)performance globale e la multimedialità inventano messaggi di morte, appiattiti al livello “basso” dell’integrazione e dell’adesione pressoché totale al sistema, allora, che valore ha la parola per il poeta? Essa deve servire a trasgredire, ribaltare, rinviare al mittente, sabotare la performance globale, però utilizzando anche le sue stesse armi. Per dirla un po’ poeticamente (perché no?), dobbiamo scrivere
CON INTER FERENZE E TRA LE FERITE UNA LINGUA NERA CHE RITROVI UNA NOZIONE PREGENITALE NELLA ESPRESSIONE-FLUSSIONE UNA LINGUA CHE PARTA DAL CENTRO DEL CORPO UNA POESIA FECALE NON LA “POESIA DEI POETI” MA UN CARMEN ALCHEMICO CHE ATTRA VERSO LA PAROLA-SHOCK ATTUA UNA LIBER’AZIONE UNA PAROLA FALLICA IN EREZIONE IL READY MADE LINGUISTICO (NON LA CITAZIONE POSTMODERNA) CONTRO LO SVUOTAMENTO DELLA LINGUA DELLA SOCIETA’ “FORZA ITALIA”
In un panorama come quello odierno dobbiamo riprendere la sperimentazione e proporre “spazi” nuovi e diversi di confronto, aggregazione, comunicazione mobilitante.


Cavalera:
La sperimentazione non è mai venuta meno. Da ben oltre un decennio. E nemmeno gli spazi sono mancati. Penso alla tua "Terra del Fuoco", a "Quaderni di critica", alle fugaci esperienze di "Altri luoghi", e "Baldus" (attestatesi su posizioni post-moderniste). Penso a "Terza Ondata" e… a "Bollettario". Già nell'editoriale, a mia firma, del gennaio 1990, ricordo che, dopo aver sottolineato il clima di generico post-modernismo nel quale si dibatteva una realtà fortemente conflittuale ad ogni livello, storico, sociale, culturale tra brandelli di ideologie, messe sotto accusa tout-cour dai rigurgiti trionfalistici di posizioni irrazionalistiche (oggi al loro top), e da una politica artritica, agorafobica, massafobica, tutta incentrata in piccole logiche e spiccioli tornaconti di palazzo...Ebbene, dopo questo cappello introduttivo, rilanciavo la necessità di riprendere il discorso critico-teorico già emerso negli anni Cinquanta/Sessanta e per questo mettevo a disposizione la nuova testata. Doveva essere luogo, a livello internazionale, di incontri, di confronti, di crescita e rafforzamento di una opposizione tutta da rilevare, ri-legare, ricostruire. E sì abbiamo pubblicato tanta poesia straniera (spagnoli, cinesi, curdi, ungheresi, inglesi..), e italiana, ma è rimasta spesso, non sempre, per fortuna, una vetrina doc in più. Senza quella forza vivificante e rigeneratrice che io, ma anche Sanguineti, con cui l'avevo concepita, speravamo. Unico vero risultato forse è che ancora oggi stiamo a parlarne… E’ quindi testimonianza di una resistenza ad oltranza. Insomma si sarebbe potuto fare molto di più se solo non fosse mancata... la volontà. La volontà, negli altri, di fare sperimentazione e ricerca in una prospettiva d’avanguardia, con convinzione, legandola ad un nuovo progetto globale, nel senso di totale. Direi invece che, nel frattempo, è trionfato il progetto globalizzante, che è tutta un'altra cosa. E dopo dieci anni ci ritroviamo ancora al punto di partenza. Tutto questo mi suona dolorosamente di dejà vu. Non siamo
un po’ patetici? Di en avant oggi è rimasto solo l'avanspettacolo. Pazienza. In coerenza, rilanciamo. Ancora.


Sproccati:
Nella situazione attuale (politica, sociale, culturale, ecc.), ci scontriamo con l’assenza “strutturale” della poesia dal mondo (occidentale, ma ormai non solo) del capitalismo avanzato e della globalizzazione economica: il processo di reificazione/mercificazione dell’arte (che è iniziato con le prime esposizioni-mercato, i salons artistici, 1’expo del 1855, ecc., e che si è via via sviluppato nei secoli XIX e XX) è approdato al culmine del proprio tragitto. La società attuale non ammette più come “produttiva” a nessun titolo - e pertanto non ammette più in assoluto - alcuna specie o forma di poesia, se non giocando sull’equivoco (sugli equivoci) che ne fanno qualcosa di affatto estraneo e assolutamente irrecuperabile a ciò che essa fu nella tradizione della modernità occidentale e delle così dette “facoltà” classiche umane. Lo spazio per la creazione individuale, in un mondo che ha estromesso l’individuo da ogni funzione sociale, è coerentemente nullo. O tutt’al più è l’angolo in cui la presenza dell’individuale si manifesta come luogo di alienazione e di diversità non integrate, marginali, residue, alla fin dei conti persino nocive per la società e per la sua salute economica.
La situazione socio-antropologica attuale è la situazione della fine della cultura tout court. Sia perché è venuta meno la possibilità del tramando culturale (cioè della cultura umana come tramando) sia perché è in fase di definitiva abolizione il requisito stesso che è la fonte di ogni cultura in quanto tale, vale a dire l’attività della comunicazione tra gli individui e tra le comunità di individui. Sotto la parvenza di una comunicazione totale, fluida, istantanea, mondiale, onnipervasiva, incessante e indifferenziata, emerge la realtà nuova e autentica dell’impossibilità della comunicazione. Nel brusio ininterrotto e assordante di messaggi contraddittorî e universalmente destinati, nel rumore di fondo (che si approssima a essere boato continuo) delle infinite “verità” tutte ugualmente valide perché tutte democraticamente paritetiche e tutte dotate della medesima dignità/indegnità, e perché tutte esenti a priori da vaglio critico e obbligo di verifica, nessun messaggio è più realmente inviabile, nessun destinatario è più effettivamente raggiungibile, nessuna asserzione asserisce più alcunché, nessuna parola risulta più dotata di significato (neppure quelle, è ovvio, che sto impiegando in questa sede per affermarlo).
Dentro tale estinzione della cultura - la cui chiave o cartina al tornasole è l’abolizione stessa (visto che si parla di estinzione) della possibilità della morte (individuale e/o collettiva) come fenomeno culturale, ossia come luogo da sempre cruciale per la cultura umana, intendo fin tanto che di cultura umana si è potuto parlare, poiché il culto per eccellenza è stato, fin dall’inizio e fin tanto che la cultura umana è durata, il culto della morte - 1’estinzione della poesia va derubricata a problema del tutto secondario. Eccetto che per coloro che desiderano ancora occuparsi di poesia. Che, in realtà, nonostante le apparenze, sono sempre meno.


Muzzioli
Ma allora i giochi sono chiusi?


Cavalera:
Direi ...fermi. Già al tempo dei Novissimi, si parlava di impossibilità della comunicazione e il linguaggio doveva comunicare proprio questa condizione impossibilitante, di paralisi comunicativa. Con quali risultati? Il muro contro cui Balestrini e gli altri, a suo dire, scagliavano le poesie continua, inossidabile moloc, a ingoiare e incorporare tutto. Nonostante tutto. Le strategie di eluderlo sono naufragate. Anche per questo ebbi modo di definire la neo-avanguardia, a quel convegno su “Comunicazione e avanguardia”, come un coitus interruptus.


Sproccati:
Sono cadute le illusioni. Resta, ancora più forte, la necessità di intervenire, per una inversione di tendenza…


Muzzioli
Sì, certo; c’è poco da stare allegri, nel degrado dell’ambiente planetario e degli umani che lo abitano. Eppure, non solo è inutile indulgere alla cultura del lamento e del piagnisteo (tipica degli umanisti delusi), ma vi sono effettive disponibilità che si offrono in una situazione che, per lo meno, - vada pure giù per una discesa, come vuole l’opinione “tragica” - non pare abbia ancora trovato dove fermare il suo movimento ed è perciò, malgrado tutto, ancora fluttuante e aperta. Del resto, più l’orizzonte delle cose stesse diventa il mondo intero e più, all’interno del nuovo ordine totalitario, si aprono - non dico brecce - ma crepe e interstizi, proprio per effetto della elefantiasi del sistema.
La stessa poesia nel mentre che senza dubbio se la passa male e pare quasi cancellata dalla faccia della cultura, però nello stesso tempo dimostra molti segni di vitalità e di piena attività. Certo: una agitazione sur place; una libertà spettrale.


Cavalera:
...Una libertà vigilata...


Muzzioli
Sarà allora la speranza che ci è rimasta, quella che Benjamin riservava ai “di sperati”? Io credo che - seguendo ancora Benjamin - dobbiamo usare la debole chance rivoluzionaria che ci è data, nelle pieghe della riproduzione
attuale del capitalismo. Abbiamo strategie lillipuziane. Ma, una volta che l’assetto dominante del mercato ci esclude, non resta che andare alla ricerca di altri mercati. Cos’abbiamo da perdere?
Ancora: se la libertà è, detto semplicemente, un errore del sistema, si converrà sul fatto che oggi la “mano invisibile” che governa l’ordine universale è in grado di governarlo solo fino a un certo punto (spesso, di fronte alle fluttuazioni inattese che si producono, non sa lei stessa che pesci prendere…). Quindi...

Cavalera:
Non c'è libertà. Si può essere liberi solo di riconoscerlo o meno. C'è un obnubilamento completo e si procede su rotaie dagli scambi impostati e che possono mutare in qualsiasi momento. Stiamo procedendo, in compiaciuta se non proprio allegra inconsapevole ma inequivocabile baldanza, verso l'autodistruzione. Bisogna fermarsi, sì finché si è in tempo e rafforzare quella pur minima chance di cui dici. Per il ribaltamento. La poesia...in tutte le forme possibili, purché affilate come lame di rasoio da far scorrere incessantemente sul collo e il viso della nostra controparte, sino a farne scorrere il sangue marcio. Per il rinnovamento.


Delli Santi:
Che valore ha la parola per il poeta? Eccoci al punto. L’arcaismo moderno (basato sul ritorno a poche identità dittatoriali, a un mondo strumentalizzato da un potere atavico che mira a colpire l’individuo con prodotti, immagini, ideologie, fastosità, pompe, decreti, bandi mitologizzati) ha trasformato la parola in un mezzo efficace per manipolare le masse, per falsare la realtà - confezionando l’occultamento dei crimini, -per celare, sotto insidiosi stratagemmi capitalistico-politici, prodotti criminosi escogitati su commissione per annichilire, nell’anestesia collettiva, la coscienza sociale.
La parola è utilizzata macchinosamente dai mass-media per pubblicizzare la farsa politica dei vertici, la si vende in qualità di maturazione sociale rinnovatrice, mentre la massa esiste schiavizzata dal monopolio della informazione guidata, imposta, mascherata.
Abbiamo così una massa strumentalizzata dagli spots celebrativi, una religione sottoforma di dittatura narcotica, una politica escogitata da un mondo claustrofobico di ideologismi mitologici. È l’era mortuaria di prodotti soffocati dal cellophan: non vi sono soltanto cibi avvelenati, ma anche parole e uomini avvelenati.
Di qui... ecco la superficie stagna su cui ci muoviamo, mangiamo, defechiamo: la parola invaghita di un vuoto accorto e strisciante che dappertutto s’insinua a svuotare, risucchiata dallo scarico di un televisore.


Cavalera:

Ogni forma di cultura è soffocata e il potere utilizza i mezzi di comunicazione per addormentare la coscienza critica dei cittadini, ridurli a forsennati consumatori, talora a sacche congelate di vitalità, cui attingere alla bisogna, per accorti trapianti. Che garantiscano soltanto la sua di .sopravvivenza. Quando riusciremo a diffondere nella pratica l'avanguardia incomprensibile, che già proposi qualche anno fa? Incomprensile, non perché oscura nel significato, illegibile, ma perché inamovibile dalle sue posizioni, quindi impossibile da cooptare in logiche di potere.


Muzzioli
L’avanguardia... Forse perché, solo a sentirla nominare, insorgono ancora reazioni inorridite e bave alla bocca (l’avversano da tutti i fronti: i neotradizionalisti perché voleva scalzare i divini classici dal loro piedistallo; i postmodernisti perché le operazioni di rottura renderebbero ardua la scioltezza del consumo); basta questo a rendere simpatica l’avanguardia.
Naturalmente, c’è avanguardia e avanguardia. E molte cose sono cambiate, oggi. Ad esempio, il ragionamento futurista che la scrittura deve adeguarsi al nuovo sentire tecnologico è pari pari quello che adesso fa il postmoderno, quello con cui il postmoderno viene a negare la possibilità stessa di testi conflittuali (quali pure erano, sia pure in modo spesso sbagliato, i futuristi). Delle avanguardie pregresse, a mio parere merita tuttora considerazione soprattutto quella surrealista, che fu di grande coerenza rivoluzionaria e utopica. In fondo, siamo ancora lì: trasformare il mondo, cambiare la vita...


Cavalera:

Io del surrealismo condivido l'amore per la vita, la sua tensione alla completa espressione delle capacità umane, alla libertà totale. Apprezzo la pregnanza filosofica, scientifica più che estetica di tanti testi, nel suo ambito. Ma rifiuto la cieca fiducia alla base per certe forme di realtà superiore...Non ci sono, per me, due mondi: il visibile e l'immaginario di cui la surrealtà, quale realtà assoluta, sarebbe sintesi. Per me c'è solo la superrealtà, fatta di infinita materialità in perenne evoluzione. e il sogno, nella mia speculazione, perde qualsiasi valenza fascinosa che Breton gli attribuiva, per diventare solo un momento di elaborazione dati. Altro che luogo in cui si attuano le promesse dell'amore e della bellezza quotidiana, o il "modo per passare liberamente" tra i due mondi! E se il surrealismo è , permettetemi la citazione puntuale, "automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia con qualsiasi altro mezzo, il funzionamento del pensiero", il superrealismo che io vado elaborando da tempo è sforzo costante di attenzione al reale, da comprendere meglio nella molteplicità delle allegorie che lo attraversano e ci attraversano. La scrittura, di qualsiasi tipo, in quest'ottica, serve non ad evidenziare il funzionamento del pensiero, come se fosse a se stante, ma a crearlo, scolpirlo, arricchirlo, modificarlo. Il pensiero è attività cerebrale e il cervello è materia. Anche sui sentimenti dissento. L'amore... per Breton è sintesi suprema del soggettivo e oggettivo e successivo rapimento, è fonte di rivelazione, espressione della vita spirituale. Per me che non credo nello Spirito, né nell'Anima (anchilosato retaggio fantastico e la clonazione ne è inequivocabile prova), è solo il top della tecnologia cerebrale. E questi sono solo alcuni punti di quello che io chiamo il superrealismo allegorico. Ma andiamo oltre...


Muzzioli

Dobbiamo andare oltre, sì. Il fatto è che non si tratta di procurarsi un modello di avanguardia. L’avanguardia, a dirla tutta, non può avere modelli. Quella che possiamo trarne è un’istanza polemica, da tradurre, però, nei parametri di una situazione sociale e culturale trasformata. Il campo di scontro è sempre l’immaginario collettivo, ma oggi non possiamo illuderci di liberare l’inconscio facendolo emergere direttamente. L’inconscio non è l’arma, ma il campo di battaglia. Occorre “attraversarlo”, che è operazione più difficile e complicata di quanto la pensassero le prime avanguardie.


Lubrano:

Il programma delle avanguardie storiche è stato quello di introdurre caos nell’ordine. La scrittura è come Orfeo che distrugge e si perde; la scrittura canta la propria necessità di morire intorno alle parole, creando una zona di vuoto, qualcosa che è come il suo suicidio, la sua esplosione. A questa condizione paradossale e contraddittoria si è riferito Octavio Paz quando ha scritto: «innamorato del silenzio il poeta non può fare altro che parlare».
Quello che noi oggi abbiamo ancora da fare è adattare queste strategie di trasgressione a una situazione (e a un avversario) che si è fatto proteiforme, ingannevole e ibrido. Dobbiamo quindi giocare di precisione e di rigore, infondere nel nostro disegno non i tratti della spontanea facilità, ma un elemento amaro e derisorio.


Cavalera:

Dobbiamo essere innanzi tutto diversi dalla nostra controparte, praticare e dimostrare nei fatti la nostra diversità. Coltivarcela con la scrittura seria in quanto autentica espressione della nostra realtà, del nostro modo di raccontarla in sbalzo . Mi disgustano quei soggetti che si dicono d'avanguardia, e poi vivono secondo i più logori progetti passatisti e hanno comportamenti inaccettabili, in quanto del tutto simili a quello che vorremmo sconvolgere, inconciliabili quindi per me con un nuovo progetto vitale.


Sproccati:

L’avanguardia… Da quando la parola ha il significato che ancora oggi possiamo assegnarle, ossia da quando vige il dominio politico del modo di produzione capitalistico, l’avanguardia è in arte nient’altro che la coscienza dell’inconciliabilità conflittuale tra arte e mondo retto dal modo di produzione capitalistico medesimo, unita però alla volontà di fare ugualmente arte. L’avanguardia realizza (e si realizza in) un insieme coerente di comportamenti operativi (cioè non passivi - cioè che non si risolvono in stupita rassegnazione) declinati come “risposta” alla piena consapevolezza di quella situazione che ho indicato all’inizio. Vi è dunque una intima e insuperabile contraddizione: dato che in avanguardia si tenta di agire pur sapendo che l’azione non potrà avere effetto e tramite essa si parla pur nella certezza che ogni parola cadrà nel vuoto.
Così i fallimenti dell’avanguardia (delle avanguardie) che compongono il senso globale della miglior attività artistica e poetica del secolo trascorso, benché siano di volta in volta spiegabili sulla base di singoli errori e di limiti storici precisi, sono l’adempimento del destino a cui l’avanguardia (l’arte, nella contemporaneità) si vota: per sua intima natura, per sua oggettiva condizione, per sua istitutiva tendenza.
Superfluo è riflettere, pertanto, sulle varie e vaste contraddizioni, sugli equivoci clamorosi, sugli errori di strategia delle diverse avanguardie pregresse (prima, seconda, e volendo essere assai presuntuosi perfino terza fase), se non per osservare che comunque in ogni momento l’avanguardia non può che procedere - se vuole procedere - addebitando ad essi (agli errori) la responsabilità di esiti frustranti che già deve prevedere come proprio destino e che dovrebbe aver il coraggio di considerare, infatti, come il risultato inevitabile della propria volontà di procedere nonostante tutto.


Cavalera:

Non credo nello stereotipo fatalistico di un'avanguardia votata all'insuccesso. Se tutto muta, perché non dovrebbe mutare anche il concetto di avanguardia? D'élite prima? Ora di massa. Rapidi seppur intensi i suoi exploit in passato? Ora pratica costante, semmai silente, comunque zoccolo permanente della volontà di cambiare, di dar voce alla massa che finora ha solo subito sempre e comunque la volontà di pochi.


Delli Santi:

Avanguardia o no, il nostro compito è, ora e sempre, non stare al gioco. Denunciare dunque, controbattere, disdire, ritorcere. Modificare la parola. Perché la parola - lasciamo perdere lo strame che ne fanno i politici: sappiamo bene che, in Italia, la parola ha più prezzo per il malfattore che per il poeta, ha più pregnanza semantica, quando è usata per tessere scellerataggini, boiate, canagliate, iniquità da insigni delinquenti, da illustri furfanti, da distinti criminali, malandrini, ingrassatori; ha più audience quando è usata, sostanza oppiacea, dall’infido crocchio clericale per narcotizzare, falsare, rubare, condannare, eccetera - è poi salvata ancor meno dai poeti che la dicono “sacra”. Ancora oggi, a partire in particolar modo dagli anni ‘80, la poesia o si occupa di raccontarci degli isterici umori dell’Io di un poeta tutto concentrato sul proprio mal di pancia a causa di un invaghimento (petrarchesco?) per una giovinetta tutta pepe e peperoncino, o si dedica a giochicchiare con le parole, come ha fatto e fa tanta sperimental poesia.
Con quest’ultima infatti, si scherza con la parola, facendola ruzzolare - palla da biliardo - tra altre parole cadute lì per caso; ci si burla del suo senso, ché tanto (secondo l’ispirato sperimental poeta) non ha importanza: la mette così come in mano a un giullar buffone perché questi la tratti (la parola, s’intende) a ninnolino gingillino, sciàpido e sciocchino, capace di divertire e sollazzare anche il più piccino; la si ritaglia da un contesto per ricontestualizzarla insieme ad altre parole ritagliate da altri contesti (contaminazione?), onde ottenere un puzzle costruito secondo uno scilinguagnolo spiegazzato tra frasi che espongono un genial nonsense che parla (ammesso che parli) con trasandatezza, sciattaggine e sciupio. La parola, insomma, è per il poeta... niente di niente.
Cosicché in questo clima di confetti graziosi e zuccherini, di melappi dolciastri, spumoni graziosi e rosoli deliziosi e mansueti, non nego di sentir un certo senso di vergogna nel dichiarar, in confidenza a qualcuno, d’essere un poeta. In quest’aura di poeti storditi d’amor proprio, o spasmodicamente toccati dalla contemplazione paesaggistica, ci rendiamo conto che finanche le parole di un Majakovskij risultano enfatiche, concettose, retoriche: «A noi non occorre il morto tempio dell’arte, dove languiscono opere inerti, ma la fabbrica vivente dello spirito umano. A noi occorrono l’arte nitrente, la parola nitrente, l’azione nitrente».


Cavalera:

Una soluzione potrebbe essere nel Superrealismo? Lo sguardo freddo sulla realtà unica e molteplice, chiara e allegoricamente sfuggente nelle sue infinite implicazioni possibili; il legame ad essa stretto ma disincantato, il caldo ascolto. Tutto questo non può che incidere sul pensiero e di conseguenza sulla prassi…


Muzzioli

La condizione della poesia oggi mi pare assai curiosa: per un verso, è tale l’impoeticità del mondo, stante l’avanzata irresistibile dell’empito “numerico” di quegli (alfieriani) «Popoli dei Zeri», che essa apparirebbe affatto esautorata e impotente; ma è tale la poeticità del mondo, invece, per altro verso, il quale sembra tutto divenuto un gioco, un bisticcio, un calembour (un assurdo e un comico involontario inimitabile e sublime, a cominciare dal partito che s’intitola a un grido di partita) che la si vedrebbe trionfante ovunque. In entrambi i casi, quello che viene meno è lo spazio per un discorso sulla poesia in sé. Certo, in queste condizioni, la poesia è contrariata. E non può, perciò, pensarsi senza prender posizione rispetto a ciò che la contraria. Solo che, a porre il conflitto tra la poesia e il mondo, si rischia di mancare il problema. Così, i problemi non sono risolti, ma cominciano: come praticare un’alternativa che non ricada nel banale e nel già previsto?


Cavalera:

Il mondo… dobbiamo prenderlo per la gola, come già suggeriva una volta Giuliani e costringerlo a vomitare i "rospi ripugnanti”, nettarlo dalle contaminazioni sedimentate fino a rivoltarlo come un calzino.


Sproccati:

Per ciò che concerne il rapporto con la Poesia con la maiuscola e quindi con la tradizione del passato mi sembra che nessuna delle avanguardie che ci hanno preceduto abbia saputo far fruttare fino in fondo quell’idea che Walter Benjamin, il massimo teorico novecentesco dell’avanguardia, a suo tempo indicò come fonte di qualsiasi pensiero in avanguardia: intendo il principio per cui una tradizione (un sistema) dominante si può combattere - e tentare di abbattere - solo attraverso la ripresa delle possibilità “altre” che essa ha sconfitto nel corso della (sua) storia, poiché in esse è (stato) occultato il senso profondo di ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato, poiché là ci sono le grandi occasioni perdute a cui una certa parte dell’umanità (ma proprio quella che ha imposto all’umanità intera il suo modello e il suo dominio) ha preferito delittuosamente sottrarsi, rinunciando a quanto, sul pianeta in cui si è trovato a vivere, 1’uomo avrebbe potuto positivamente ottenere per sé e per gli altri esseri (e persino per le altre cose) con cui ha vissuto. E dovrà essere chiaro, una volta per tutte, che tale “antistoricismo”, che una simile visione pressoché “mistica” del significato della vita e della storia, é la clausola preliminare che occorre accettare per potersi dire “schierati” da una parte, quella dell’antagonismo politico-culturale, senza tema di doversi considerare banali mistificatori o integrati velleitari. O così, o si accetta passivamente (coerentemente) il mondo che una certa umanità ha creato, accogliendo il rantolo della terra cui alla fine stiamo assistendo come l’esito del tutto ineluttabile del concludersi di una fase geologica tra le altre, quella che ha visto sulla terra sorgere la vita e la vita mutare in profondità l’aspetto della terra, distruggendo al contempo se stessa, proprio per mano della sua manifestazione estrema e più stupefacente.
Non mi sembra il caso di indicare in questo momento - forse non è il caso di farlo in assoluto - quali siano, di fatto e specifícando, le tradizioni altre (potenzialmente alternative) a cui personalmente riferirsi nell’ambito di un benjaminiano “recupero del passato oppresso”. Si tratta piuttosto, così credo, di allargare il più possibile il proprio rapporto con la storia (con /e storie, e si legga anche al plurale il seguito della frase) che non ci è stata esaurientemente raccontata, o peggio che ci viene taciuta: per mezzo di un lavoro di scavo da attuarsi sia attraverso la ricerca pura sia attraverso la scrittura poetica, facendo anzi della propria scrittura e dei propri testi i luoghi in cui un continuo esperimento di ripristino del “non detto” prelude all’ampliamento della propria e altrui (nella misura in cui quei luoghi vengono da altri “frequentati”) coscienza del passato, benjaminianamente (ancóra!) intesa come coscienza (più piena) del presente - dato che il presente si qualifíca proprio a partire da ciò che del passato è stato negato, ossia dichiarato obsoleto, dannoso, superato.


Cavalera:

Non a caso , credo che in passato suggerivo di puntare la nostra attenzione sul mondo dell'emarginazione…delle conflittualità soffocate per farle emergere e collegare in una rete progettualmente esplosiva, veramente e finalmente innovativa…Che la storia finora è un lunghissimo elenco di occasioni mancate.


Delli Santi:
Che fare allora? Se la spugna dell’esistenza è zuppa di assolutismi rampanti, programmatici, di turlupinati dal flusso dell’appiattimento distruttivo... che fare? che fare se è con ossessiva puntigliosità che il rigurgito televisivo ti vomita negli occhi, fino a farteli schizzare come acini d’uva schiacciati, lindi paradisi artificiali in cui la storia dell’uomo è cancellata, in cui anche gli stupri, gli omicidi e le guerre annoiano se non sono spettacolarizzati?
Che fare se questo supermarket televisivo ci serve una realtà sterilizzata da un ovattato ottimismo mercificato? Che fare se ognuno di noi (nessuno escluso) galleggia in superficie a tutto ciò: stronzo evacuato da una società di potenti mattacchioni, che si trastullano nel farci ingoiare tutta la merda che ritengono utile ai fini dei loro interessi? Certamente non tacere, ma dire, lanciare parole come sassi contro la franchigia sorda di questi astuti criminali.


Cavalera:

I sassi devono implodere dentro… Dobbiamo modificare il dentro se vogliamo che muti l'ambiente circostante, a favore in primis della stessa natura così martoriata. L'uomo deve arrivare a comprendere che non ha più diritti di qualsiasi batterio o granello di sabbia su questa terra. Ma, avendo forse più consapevolezza, ha soltanto più doveri. Ora più che mai! Il dovere innanzitutto di entrare in piena sintonia col resto che lo circonda: la natura, protagonista in assoluto della sua realtà, nella sua straordinaria complessità, che non finisce mai di avvincerci.
E i giochi altrui possono non toccarci solo se, quando si compiono, noi siamo più in là. Necessita uno salto di qualità, di creatività.


Muzzioli

Una volta le cose erano più semplici, quanto alla lotta alla tradizione. Ci sono ancora - è vero - vari tentativi di restaurare il Canone della grande arte, ma oggi il principale avversario che abbiamo di fronte è la legge del mercato, il criterio di vendibilità (in altri termini: la presupposizione, se non la produzione, della domanda). È questo principio che decreta l’eliminazione della ricerca letteraria. L’unica risposta, in questo senso, sta - come accennavo prima - nel saggiare praticamente altri canali comunicativi e nella formazione del pubblico.
E tuttavia i legami “segreti” tra il gusto raffinato dell’intenditore e quello pervertito del consumatore continuano a essere consistenti. (Basta pensare che quei due sono, poi, il grande e il piccolo borghese: vale a dire, sempre tutt’e due borghesi!). L’alleanza tra il Senso e il Valore non ha ancora finito di stringerci il collo...
Perciò non dobbiamo rassegnarci né alla difesa dello stile, quasi che fosse una specie in estinzione, né alla speranza che i movimenti imperscrutabili del consumo finiscano per distruggere gli idoli che essi stessi hanno creato. No - anche se la cultura della cosiddetta sinistra sembra non sia capace d’altro che di oscillare proprio dentro questa falsa opposizione. Bisogna cominciare a riaprire i discorsi imbavagliati di tutte le linee divergenti e disomogenee della modernità (che sono poi le più radicali), fino ai corsi sotterranei dell’anticlassico. Ricostruire la mappa delle tradizioni alternative.
Quanto a me, un nome che tendo a privilegiare su tutti è, negli ultimi tempi, quello di Brecht. La sua pulsione politica è assolutamente primaria e gli impedisce di cadere in qualsiasi riaffermazione dell’estetica (e con ciò di rimanere all’interno dell’arte e della letteratura in quanto tali). Nello stesso tempo la sua politicità compie sempre un percorso indiretto; ha qualcosa di cifrato. Non per nulla Brecht torna sempre di più, nel dibattito teorico internazionale: non possiamo fare a meno dello straniamento, della dialettica materialistica, della gestualità critica e della citazione ironica. Per quanto Brecht sia stato influente sui migliori “novissimi” (Pagliarani, Sanguineti), una avanguardia brechtiana mi pare ancora tutta da costruire


Cavalera:

Brecht è un autore a me molto presente. Anche l’impostazione teatrale delle mie poe
sie con quelle parentetiche piene di commenti estranianti, lo richiamano indubbiamente …E poi c’è il suo recupero ed esaltazione della ragione, della facoltà razionale e nel momento creativo e in quello della fruizione che non può non essere condiviso. Nes sun intontimento dello spettatore, ma una raffica di scossoni che gli impongano una partecipazione attiva.

Lubrano:
Io penso che la poetica abbia da muoversi in tutte le direzioni, davvero in senso polisemiotico e autenticamente multimediale. Sia nella costruzione dell’enunciato che in quella dell’enunciazione. Ben vengano tutti i linguaggi (e tanto più auspicando la libera mescolanza di popoli e di etnie), ma a patto che producano i sobbalzi vitali del contrasto e della demistificazione nel corpo del “Grande Mostro multilingue”; e ben vengano tutti gli strumenti della scrittura e della voce (si sommi al libro il disco, la performance, secondo le migliori indicazioni dei “verbovisivi” attivi dagli anni Settanta) in un laboratorio pienamente efficace. Per questo mi è sempre piaciuto parlare di “laboratorio del fare”; ma non come semplice attrezzatura tecnica o come separatezza pragmatica: intendendo, piuttosto, la pluralità come tendenza alla trasgressione (trasgressione verbale, quindi trasgressione di un codice; come trasgressione di un sistema linguistico e quindi sociale). E allora ecco il decollage tranciante delle lingue, l’incandescenza cromatica dei gerghi, le perversioni foniche dei dialettismi, una mistura alchemica per un barocco d’opposizione, contro l’osceno di una oscena società, ridotta ai soft-bordelli gestiti dal GRANDE FRATELLO.


Muzzioli

La questione è da porre, pur sempre e quantunque, in termini di “pratica poetica”, cioè di produzione e di lavoro. E il lavoro è “infinito”: riguarda la teoria e la storia, la critica, l’organizzazione, e via dicendo. Ma il lavoro sul testo creativo è il più difficile di tutti. Se il principio è quello per cui ogni parte ed ogni elemento devono muoversi (cioè, essere elaborati sulla pagina attraverso una qualche distorsione che ne ri-formi originalmente la pronuncia rispetto alla standardizzazione del codice), allora non si può mai essere sicuri di avere impresso sufficiente attività al testo, di avere esaurito tutte possibilità di dinamismo.
Per quanto mi riguarda, ho seguito negli ultimi tempi due linee di ricerca: 1) escludendo assolutamente il ricorso all’elemento “personale” o psicologico (qui resta sovrana la battuta di Benjamin: «dell’interiorità me n’impipo»), costituire il testo a partire da un insieme di azioni anonime, entità, ambiti, rapporti, sommandoli in un ritmo di accumulazione (magari accompagnato dalla sperimentazione una metrica quantitativa, di unità verbali: fare poesia coi piedi, perché no? - o, per essere più dignitosi: un nuovo esametro), in modo da mimare le spinte e controspinte di un’epica dell’alienazione quotidiana; 2) partendo invece da rapporti di stretta somiglianza sonora (il gioco di parole sostituisce ormai la metafora, in quanto collegamento a sorpresa: somiglianza materiale, invece di analogia concettuale), intaccarne dall’interno l’euforia creativa, in modo da arrivare ugualmente e per forza di cose a discutere dei mali del mondo contemporaneo. Un comico nero. Così la libertà si rovescia in costrizione: ciò che il testo dice va al contrario di ciò che fa.
Il massimo sarebbe far scontrare tra loro queste stesse disposizioni procedurali. Contraddizione, contraddizione su tutta la linea. Poiché penso che la poesia non debba presentare la “soluzione”, ma caricare di tensione. Si deve uscire dal libro insoddisfatti. Solo l’insoddisfazione spinge ad agire.


Cavalera:

Certo l'elemento psicologico.va escluso La Psiche come realtà a se stante non esiste, non mi interessa dunque. Quanto riteniamo tale è solo l'estensione, nell'ambito della superrealtà, della realtà esterna. Preferisco limitare la mia attenzione a quest'ultima, già così problematica. In riferimento all'elemento personale, lo privilegio invece, diciamo per comodità. E senza quei compiacimenti narcisistici comunemente intesi. Perché anche sul narcisismo ci sarebbe da parlare, da rinnovare finalmente certi sciocchi stereotipi, dei luoghi comuni indecenti. Parlo anche di me (e di ciò che entra in contatto con me) perché sono il frammento di realtà che meglio conosco. E poi non dicevamo che bisognerebbe partire dal rimosso? Non siamo noi stessi dei "rimossi" per eccellenza? Con i nostri progetti vitali di sano impianto ambientale puntualmente elusi? Facciamo conoscere il nostro punto di vista, indugiando anche sul personale. Se può servire...


Sproccati:

Quanto a me, ritengo imprescindibile la parola allegorica che è propria dell’avanguardia (e questo sì, a prescindere dalla fase a cui l’avanguardia appartiene o in cui si realizza). Essa è propriamente la parola dell’altro, il tentativo di far parlare “l’altro che ci è stato tolto", il diverso oppresso e occulto che la storia ha frantumato nel suo processo distruttivo. Per tentare di dare corpo a questa, inevitabilmente utopica, parola allegorica, personalmente mi affido (con una fede la cui opportunità resta anche per me sempre e comunque da verificare) a una declinazione un po’ personale, forse alquanto estremistica, dell’atteggiamento che Heidegger ha indicato come “porsi in ascolto del linguaggio”. Si tratta, per quanto mi compete, di raggiungere - a mezzo di un esercizio di analisi del significante linguistico - una condizione che sarei tentato di definire “estatica” in luogo di “estetica”, cioè una condizione (operativa) nella quale il soggetto riesce in parte ad abdicare a se stesso, dunque al pieno controllo di ciò che va facendo convinto com’è (convinto come sono) che il controllo non possa in nessun caso considerarsi realmente suo (mio), ma piuttosto e purtroppo il frutto (condizionato) della sua appartenenza piena e ineludibile al pensiero dominante (che lo domina) Credo in altre parole, che non vi sia diversa maniera di realizzare la parola allegorica se non quella che muove dalla preliminare ammissione che è impossibile farlo partendo da una propria esplicita intenzione, e che di conseguenza sia possibile realizzarla solo mettendosi al servizio della forza interna del linguaggio e auspicando che essa possa esprimersi attraverso la “maieutica” della sua liberazione - che vuol dire, poi, lasciar emergere questa forza ponendosi, almeno in parte, in disparte.
Rinunciare (non nella firma e nella responsabilità dei testi, ma nell’affermazione del proprio totale dominio sui contenuti dei medesimi) al controllo soggettivo del lavoro significa tentare artifici - che mi è sempre piaciuto chiamare “coercizioni liberatorie" - che sono d’altra parte in linea con la natura più autentica della scrittura poetica, solo esasperandone il valore e la presenza rispetto all’uso (misurato) che ne ha fatto la tradizione della poesia in Occidente. La durezza adamantina, in poesia, delle strutture dette “chiuse”, qualsiasi origine e motivazione storica abbia, da sempre offre all’autore di testi poetici la chance ulteriore di una possibile scoperta della forza interna del linguaggio, in qualche modo legata al plesso misterioso del suo formarsi medesimo e del suo “agire” nella formazione del pensiero. Una chimica sperimentale e nei suoi effetti (sempre diversi) fortemente imprevedibile attende il poeta che sappia accettare di porsi in ascolto, vale a dire che sappia - almeno in parte - abbandonare l’idea di avere cose da dire (per così dire a priori), per accogliere la prospettiva contraria, cioè di essere colui che permette alle cose (alle parole) di dirsi. Avvicinare e allontanare le parole, seguirle più per il loro suono che per il senso che (apparentemente, in prima istanza soltanto) veicolano, obbligare il testo dentro lunghezze arbitrariamente stabilite, forzare i nessi sintattici e logici sulla base di pure suggestioni formali, mobilitare con smodata euforia tutte le risorse della retorica metaplastica, metasemantica e metalogica, accettare (fin tanto che vi si riesce) l’improbabile, l’assurdo, il mostruoso nel testo: ecco - se proprio fosse il caso di darle - alcune indicazioni di metodo per la grande utopia di una parola, di una scrittura, non irretite nel gioco, sempre altrove giocato, dell’illusione di parola originale/personale e (ma) dell’effettiva omologazione universale del discorso.


Cavalera:

Il mio ascolto non riguarda il linguaggio, ma una precisa realtà, che mi sollecita per particolari motivi contingenti e diciamo predisponesti. Poi lascio che le parole da essa e su di essa si accumulino e me la raccontino, me la scolpiscano in mente, invocando quasi un assestamento , un inveramento poi esterno. Non riesco a sottrarmi. Né lo voglio. Sono una sorta di catarifrangente poroso, agile, duttile, mobile…


Delli Santi:

Sì, ma che fare? che fare tra questa obbrobriosa infezione sociale? che fare se le armi dei viziosi sono brandite da vivi che muoiono per essere stati insulsamente vivi?
Se nella spazzatura vi sono tante parole quante sono le cose lì gettate a far spazzatura, la poesia, il verso alletamato dall’urlo ignorato di un mondo rifiutato dai suoi stessi rifiuti, se nella cosa gettata v’è la parola della desolazione, della depressione e dell’ipocondria, allora perché la poesia non dovrebbe riboccare di queste cose? perché nei versi non dovrebbe esserci lo scaracchio di un maltrattato, la pillacchera fangosa, la folle ilarità degli sfruttatori, la scellerata mercificazione delle catastrofi, la lettera di un suicida, il silenzio squartato di un bambino seviziato, lo sguardo della donna ancora calpestata, la suola di una scarpa?


Lubrano:

Se ritorniamo al panorama presente, che abbiamo identificato all’inizio, l’unica risposta al “che fare?” è riprendere la sperimentazione e proporre spazi diversi, altri, per una comunicazione a sua volta altra e diversa. Parlerei di “comunic’azione”, insomma tra il dire e il fare…
E vorrei sottolineare anche l’uso del termine “spazio”. Non dobbiamo limitarci ad enunciare le nostre poetiche, personali o di gruppo, ma aprire spazi (di iniziativa: di editoria, di eventi, di contatti, e così via) disponibili per tutti coloro che vorranno aggiungersi alla nostra discussione.
Perché non c’è da farsi illusioni: la voce del teleschermo, nel suo assordante silenzio, continuerà a vomitare e sparare pallottole nel nostro cervello; e tra poco anche la storia sarà riscritta… eppure, sebbene ridotti “a pezzi”, i frammenti della nostra scrittura, qua e là imperfettamente censurata (nessuna censura è mai perfetta, se non altro perché resta sempre la traccia del suo movimento di rimozione), resterà tra le pieghe della logosfera, in attesa di essere ritrovata.


Cavalera:

Non solo la nostra scrittura, ma la storia dell'uomo è a pezzi,. Raccogliamone i frammenti, prima che finiscano nella spazzatura della Storia ufficiale, o meglio nel macero della Storia universale, come già faccio io con i cocci, nella mia galleria dei rifiuti domestici (e che presento in quei cataloghetti sempre puntualmente ignorati). Vorrei anzi poter allestire quanto prima una specchia non di pietre ma di cocci. Una specchia alta tre, quattro metri. Per il milite quotidiano e sempre ignoto dell'avanzante Tremila.


Muzzioli

Però non abbiamo un antagonismo esterno a cui fare riferimento. E non possiamo pretendere di reinventarci da noi e di promuovere per ipse dixit una politica culturale. Siamo costretti, lo sappiamo, a una politicità molto intrinseca alla tendenza letteraria praticabile. Ma questo non significa una opzione moderata o un rifugio nella sfera autonoma della letteratura. Tutt’altro: il testo può farsi forte proprio del fatto di indicare consapevolmente ai lettori, nel gesto della sua allegoria, tutto quello che, nelle condizioni attuali, è impossibilitato a fare.
Sappiamo che l’antagonismo (la lotta di classe) è nelle cose, è il trauma profondo, è l’inconscio. Per questo l’atto polemico che oggi riusciamo a intravedere dietro le cortine fumogene della autovalorizzazione del capitale è un atto in cui la stessa struttura che costruiamo viene messa in crisi alla radice (e ne saltano i valori classici di unità, coerenza, armonia, organicità e quant’altro). Se si tratta, malgrado tutto, di comunicare, non credo però sia possibile un tranquillo dialogo; l’unica via è toccare il nervo di una “sensibilità per l’inconciliato” che l’arte ha sempre rasentato, tuttavia con l’accortezza di ridurla a dimensioni minori o di ricondurla a sfoghi emotivi.
Sarà una poesia altra. Una poesia solo relativamente poetica. Perché l’antagonismo taglia in due gli ambiti disciplinari: e quando emerge non è più possibile abitare pacificamente gli ambiti, i parametri e i confini della nozione data.


Delli Santi:

Negare la subdola, dogmatica e settaria cultura del potere, sempre strategicamente alla ricerca del beneplacito di massa, sempre pronta a disanimare e a intimorire l’opposizione e il dissentimento, vuol dire tentare una scrittura altra, come scrittura materialistica e antagonistica, congegnandosi in sintonia a una espressività dalla quale emerga il compito non solo di contraddire, ma anche di esplicare le relazioni fra la sua azione comunicativa di senso e la complessione dei contenuti della formalizzazione significante del sociale. La letterarietà altra è la desublimazione della letterarietà, intesa nella sua volontà di assimilazione di una forma espressiva confermata dalla tensione volitiva di una lotta sociale riguardata nel relazionarsi a un linguaggio inteso come immersione nel terreno in divenire della realtà socio-politica.
Ma una scrittura altra c’è per chi davvero si oppone alla letterarietà, e non è letterarietà altra se non quella che emerge dall’affermazione d’una lotta dichiaratamente politica. E il suo linguaggio non può che entrare in azione discrepando: all’assoluto chimerico della poesia post-lirica, all’omogeneità mercificata di una letteratura evasiva e al qualunquismo post-modernista che hanno spogliato la scrittura da ogni volontà di perseguire strategie antagonistiche, oppone l’esistenza incondizionata dello sfregio sarcastico, e dell’ingegnoso meccanismo antinomico di un linguaggio proveniente dalla incessante mutazione delle situazioni significative del sociale.
Cosicché la scrittura altra sarebbe testualmente una scrittura rigettata. Essa cioè non può non avere in sé linguaggi che non siano quelli di una storia che raccolga di là dalla scrittura, la paratassi del consorzio umano e dell’esistenza. Per ciò la scrittura deve affermarsi come altro da sé, come l’atto stesso di un linguaggio che si rinnova a condizione che i linguaggi del sociale cooperino a impegnarlo socialmente.
Pertanto la scrittura può dirsi rivoluzionaria, sia quando il suo linguaggio e la sua forma si presentano rinnovati e svecchiati rispetto alle forme espressive dominanti, sia quando la sua militanza socio-politica persegue l’obiettivo di partecipare alla novazione delle istituzioni letterarie e di controbattere antagonisticamente il sistema capitalistico, sia quando (pur sapendo che quest’ultimo emetterà sempre stereotipi di condanna nei riguardi di chiunque tenti o voglia rovesciare la prospettiva alienante di una sottomissione al suo potere) contraddice le falsìe di demistificazione e di estemporalità postmoderniste, che sono di una validità opinabile in luogo di un qualsiasi linguaggio espressivo socialmente impegnato, sia quando alla conglomerazione (postmodernista) di cancellazioni continue fra materiali astoricamente assemblati, indifferentemente intercambiabili, controbatte con l’enucleazione di una espressività (storicamente significante) nell’articolazione di una comunicazione politica finalizzata a recuperare analiticamente e materialisticamente i contenuti sostanziali di una società in atto.



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ultimo aggiornamento: lunedì 10 dicembre 2001 22.54.56
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