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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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ESTRATTO

"L'incomunicabilità di un dialogo"

Nadia Cavalera

Bollettario n°22/23


  E' la storia di un dialogo mai avvenuto, certo desiderato, molto immaginato infine tentato in extremis sulla pagina. Ma anche qui ha fallito e questo Dialogo di Edoardo Sanguineti risulta essere piuttosto il fine incastro di due monologhi, affidati a due voci, in un superbo contrappunto variamente mosso, ed avente per tema, in un paesaggio rigorosamente mentale, la cronaca di una morte in diretta, e per fine ultimo, nella realtà, l’attuazione di una tangibile violenza perpetrata attraverso le parole. Una sorta di mini tragedia doppia, come la più nota favola doppia, che smentisce conclamatamente nello svolgimento la premessa del titolo.
  Protagonisti sono una donna ed un uomo, designati genericamente con D e U, e colti ognuno nella realtà della propria stanza.
  Lui, davanti ad un grande armadio a tre specchi che gli permette una visuale a tutto campo, è in piedi, nudo nella sua intierezza e si fa la barba. Lei, davanti al piccolo specchio ovale della sua pettiniera antica, è seduta, in vestaglia e si sta truccando o comunque ci prova. Le ambientazioni e le posizioni sono diverse come diverso è uno dei due elementi che li accomuna: lo specchio. Motivo dominante dell’intero componimento, al quale per altro conduce, in un narcisismo strisciante, l’altro elemento comune: l’azione o solo il tentativo di farsi belli.
  Di essi si saprà che sono lontani; che scrivono e si scrivono ma poco si conoscono e forse addirittura non si sono mai incontrati; che lui è un personaggio noto e affermato, ma lei una sconosciuta; che tra loro corre comunque un qualche accordo poi sciolto e che proprio questo avvenimento provoca un tale squilibrio da non lasciare ipotizzare "degna" soluzione, per il riassetto generale, che nella duplice soppressione violenta del presunto responsabile, indicato in D.
  Ed è affidato a D il ruolo di voce principale che narra l’intiera vicenda di cui rimarrà vittima, e in cui U sembra avere un ruolo complementare, all’inizio piuttosto passivo, salvo poi riservarsi il diritto di imporre l’ultima parola.
  È dunque D a dare il via a quello che si dipanerà come un freddo giuoco speculare, sottilmente estenuante, in andamento largo nelle mosse iniziali, puramente informative sugli antecedenti, sempre più serrato verso il precipitare degli eventi, (in un interludio scenico con echi onirici), infine nuovamente largo, disteso, a significare emblematicamente il rientro in una situazione di rassicurante normalità, ribadita dall’immagine di lui nuovamente, come nell’attacco iniziale, davanti ai suoi modernissimi specchi, mentre si ammira in tutta la sua magnificenza da ogni possibile angolazione. Chiuso nella sua gabbia narcisistica, ma forse e meglio in una sua personale storia, che non ci è dato sapere.
  Ma prima di passare a verificare nel testo la possibile validità di questa interpretazione, sentiamo i protagonisti. Uno per volta, secondo quello che ci piace pensare sia stato uno dei momenti dell’iter compositivo.
  È un percorso più lungo, ma ci agevola nella individuazione dei punti semantico-strutturali più salienti.
  D esordisce descrivendoci la visione di un lui nella sua stanza, in fondo al corridoio e davanti all’armadio che, grazie ai suoi tre grandi specchi, senza sforzo alcuno, e con piccoli movimenti gli permette una panoramica completa. In questa lui, sempre stando alla visione di D, inquadra un giorno l’immagine di una mezza figura di donna. Nel farle un cenno d’intesa si procura una ferita da cui comincia a sgorgare lento, ma abbondante il sangue.
  La mezza donna è all’inizio cancellata da un riflesso di luce che non si riesce a capire se risalga ad un occhio o ad un naso. Predomina nel quadro il rosso, forse quello di una bocca che, nell’accennare una smorfia, sembra piuttosto una ferita.
  L’incertezza delle immagini lo spingono ad interrogarsi ed eccolo tracciare con la schiuma da barba una spirale su quella figura che ormai è inequivocabilmente una mezza donna. La spirale a ben vedere, è un interrogativo il cui punto risulta composto da un ombelico: se ne ignora però l’appartenenza (di lui o di lei?). Certa l’avanzata del sangue verso la spirale che, stabilendo un legame, si configura come un cordone ombelicale. La donna, si saprà, non è al suo primo parto. La spirale intanto più che un cordone sembra proprio una placenta che, senza attecchire in lui o in lei, scivola a terra e si scioglie in un’altra mezza figura. Lo scenario è di due mezze figure di due mezze donne che rappresentano due placente intere, in una situazione ancora di realizzazione, tutta in fieri. Insomma un terribile pasticcio tant’è che a D, volendole guardare come una figura intera, in un tentativo disperato di composizione, sembrano una frittata.
  Lui intanto fa un passo indietro, davanti al suo armadio, e nei tre specchi compaiono tre frittate che, come le pustole col burro, non guariscono mai.
  A questo punto D, disgustata da ciò che vede nello specchio e che evidentemente la riguarda (c’è infatti una evidente immedesimazione), soffia sullo specchio e cancella tutto, compresa una certa nuvola. Ma così in fondo al corridoio non si vede più nessuno.
  Scatta la descrizione di fotogrammi di un qualche film di Rita Hayworth, dove la protagonista si trova al Luna Park, in un baraccone di specchi, che moltiplicano qualsiasi immagine, confondendone le posizioni. All’improvviso qualcuno spara, o forse sono due a sparare: tutti gli specchi saltano in aria, in pezzi, e viene colpita a morte anche lei, che pare fosse molto malvagia. A sparare si suppone che sia stato il marito.
  Queste le brevi sequenze filmiche descritte e si sarebbe tentati di credere che il tutto si esaurisca nella girandola di questa ulteriore rifrazione mentale, se non ritrovassimo la nostra D che, rientrata nel primo piano di riflessione, dopo un’ultima immagine-descrizione di lui compiaciuto davanti al suo armadio, chiude veramente gli occhi e muore.
  Quale il controcanto di lui?
  Anche U immagina una lei nella stanza, davanti alla sua pettiniera antica, mentre vorrebbe tingersi la faccia e si massaggia per darsi un tono. Fissando lo specchio in cui lei si riflette, U crede di vedere una testa molto piccola, sfocata, che spesso si alterna ad una scatola, ad un vaso, ad una pentola, comunque un oggetto, verso i quali la donna ha un atteggiamento mutevole: ora li tocca rudemente con una mano, ora li sfiora appena, ora li accarezza, e una volta scava persino con un dito in quello che sembra ravvisarsi come un occhio dondolante nella sua cavità, finendo poi con l’annebbiare tutto con l’alito e con lo scriverci sopra qualcosa che U, da lontano, non comprende. Intanto la testa-pentola fuma tanto che U decide di intervenire e metterci sopra un coperchio, se non che teme che così facendo, possa scoppiare quella testa, che solo in seguito identifica con la sua. Quando, prendendo coscienza dei termini nei quali la donna lo pensa, riprende in mano la situazione e schizza sopra l’immagine e del proprio specchio e dello specchio di lei e sulla propria testa della schiuma affinché si rinfreschi. Paziente quindi aspetta che la pentola si raffreddi, poi con un colpo solo orienta i tre specchi in modo tale da realizzare una riflessione diretta ed incrociata che dà un corridoio completamente vuoto.
  Qui, anche da parte di U, in sovrapposizione a D, c’è la descrizione di frammenti di un vecchio film, in cui il protagonista, un uomo grasso, calvo e ripugnante, guarda da una finestra, ma solo per controllare, tramite uno specchio esterno, ciò che una donna fa nell’interno. Si adducono probabili motivi di gelosia. Segue una scena di violenza, in cui domina gigantesca la testa di lui, e dopo la quale la donna (una Greta Garbo probabilmente bellissima) si prostituisce.
  Nel rientro al primo piano di riflessione, sempre in sovrapposizione, U riprende la descrizione di quella che ormai sembra, senza ombra di dubbio, D, col suo specchietto mobile, di cui si intrattiene a elencare le varie posizioni (verticale..obliquo..), per poi soffermarsi, non senza un certo speranzoso sollievo, a rimarcare che quello specchio, una volta in orizzontale è come se non ci fosse mai stato, per chi ci sta davanti, soltanto seduto.
  Ed ora i riscontri.
  Che D ed U siano lontani si coglie da più elementi. Innanzitutto l’impianto dell’intera storia sugli specchi, che altro non ci appaiono che metafora continuata di un rapporto epistolare: è su delle lettere che i protagonisti si interrogano, è su di esse che riflettono intensamente, preoccupati, però, si direbbe, più che di raggiungere l’altro, di capire cosa l’altro pensa nei propri riguardi. Ad avvalorare questa ipotesi interviene lo stesso autore che per la scenografia suggerisce che gli attori stiano in poltrona e "leggano" la parte.
  Comunque nel testo in più punti si accenna ad una situazione di reale lontananza e sempre nelle battute di U, che pare risentirne maggiormente. Per esempio in ottava battuta, dove l’uomo non comprende cosa la donna scrive nella nebbia proprio perché sta lontano e gli manca un riscontro diretto ("non si può leggere niente, di qua, si capisce da lontano"). Ma già in quarta battuta lui non ha una visione chiara ("per quel che ci capisco, di qui"). Più oltre, in decima battuta, dove nel rimarcare la lontananza sembra, però coglierne il vantaggio almeno nel poter dimenticare: "Di qua, se voglio, ci faccio un mio coperchio con il manico". Circostanza questa che può rimandare anche a qualche iniziativa da intraprendere.
  Il riferimento agli specchi ha comunque una indubbia doppia valenza, in questo testo dove la duplicità impera sovrana, aumentando l’incertezza generale: rimandano infatti all’attività stessa dei protagonisti che con la scrittura hanno evidentemente a che fare, seppure a livelli e forse ambiti diversi, che ci vengono suggeriti dalle fattezze e grandezze degli specchi, e per i quali U, proiettato nel futuro, a tarda età, ("in fondo al corridoio"), si direbbe detenga un posto di grande notorietà, di prestigio, mentre D, sarebbe una sconosciuta, che non si scopre del tutto, per quel suo stare "in vestaglia", non è imponente, ma sta "seduta" appunto, a giostrarsi romanticheggiante con un piccolo specchio antico, o meglio forse da antiquario, in senso crociano, per imitatore, tant’è che se il suo specchio si mettesse orizzontale (se la donna morisse), di lei non rimarrebbe traccia alcuna.
  Si spiegherebbe così come mai D sa tutto di U (lo vede "nudo") e non presenta la curiosità impellente di U nei riguardi della donna, che forse non ha mai conosciuto fisicamente: e una spia in tal senso è proprio quel "probabilmente bellissima", dove risulterebbe strano il dubbio sulla bellezza rinomata invece della Garbo, se questa non fosse chiara proiezione di D.
  Inoltre è da ritenere che sia proprio la curiosità non soddisfatta, anzi esasperata dall’incerta origine di certe "illuminazioni" (intelligenza o solo fiuto?), e dalla sofferenza intuita dietro qualche vezzosità, più lo sconcerto di alcune provocazioni (veri e propri insulti alla sua intelligenza), nel sospetto costante di una scarsa considerazione ("ma è una testa quella testa"? si chiede più volte), che crea un legame tra i due ("è un autentico cordone ombelicale, la spirale, ormai"). Questo dà luogo ad una iniziativa che, lambendoli, entrambi, non li penetra, ma si scioglie a terra, dando luogo ad una molteplice serie di complicanze irrisolvibili, che costituiscono un terribile pasticcio, di cui D si libera disinvoltamente, annebbiando il tutto e cancellando lo scenario con un colpo solo. Ma così facendo, cancella anche un qualche sogno ("e cancello la nuvola") caro evidentemente anche ad U, tant’è che subito dopo che le due voci coincidono nella visione di un corridoio vuoto, scatta la parte diremmo più fiorita del testo, e dal ritmo più straniante e straniato.
  Le due voci, che prima alternate avevano poi iniziato a frangersi, mediante l’azione di confusione attuata dalla donna, ora si sovrappongono, si toccano e si intrecciano, anche graficamente, nella narrazione dei fotogrammi filmici, cui viene affidato, in ulteriore rimando metaforico, il compito di indicare la possibile evoluzione degli avvenimenti. Anche questa doppia: un assassinio o una violenza.
  E mentre non ci sono dubbi su quale strada sia stata perseguita, nel tiro a segno cerebrale eseguito sempre in doppia sequenza, ecco materializzarsi per il lettore in concreto anche la dimensione della violenza, proprio nell’attuazione stessa del componimento, che altro non pare che una lapide a futura ignobile memoria della sconosciuta D, più che mai impossibilitata a sollevarsi, "sotto la testa di lui in primo piano gigantesca" (non "piccolissima" come lei credeva: ma stando sempre ad U), che ne decreta la mediocrità.
  A questo punto sembra fin troppo evidente che sotto quell’U si cela l’autore stesso, secondo un costume che gli è usuale ("io il mio privato me lo sbatto in piazza"), anche se questa volta gli dobbiamo riconoscere un insolito pudore per l’abbandono ad un travestimento così lungo ed accurato; ma, nulla conoscendo di D, saremmo curiosi di sapere almeno se si sia poi prostituita veramente, che qui starebbe a significare un tradimento, più che fisico, di posizione teorica probabilmente.
  Certo è che i motivi non le sarebbero mancati in quanto altre violenze (perfide falsità?), nei suoi riguardi, crediamo di ravvisare in testi composti dopo Dialogo, nel triste quadro di un accanimento, che giusto una profonda delusione all’origine può giustificare.
  Ma la digressione sarebbe troppo lunga. Torniamo a "Dialogo" per sottolinearne la perfetta circolarità della struttura. Tutto in questo testo sembra ruotare intorno a un punto interno fisso, un’ossessione simbolicamente rappresentata dai rimandi continui degli specchi che si riflettono tra di loro, dall’epilogo che retoricamente riprende l’esordio, indicando un tutto continuo, un perpetuo moto circolare, in un lampante circolo vizioso che non ha via d’uscita se non in quella poi adottata. Per essa l’autore sceglie a testimone e giudice, eleggendolo alla funzione di coro (tramite l’adozione scenografica degli specchi sullo sfondo del palcoscenico) il pubblico. Creando un ulteriore cerchio concentrico intorno ai personaggi.
  Ma se il coro nelle tragedie greche rappresenta il più delle volte la coscienza dell’autore, qui, questa viene affidata, in transfert alle reazioni del pubblico, nel quale evidentemente si cerca di ingenerare una salutare crisi. Su una storia di presunto narcisismo.
  Ma un altro elemento ci fa pensare alla tragedia greca: la cura di evitare di rappresentare direttamente sulla scena azioni violente col ricorso a tecniche di estrazione spettacolare, tant’è che mentre in quella dall’azione si passa alla narrazione, qui, dalla narrazione in presa diretta, si passa alla proiezione, in un ulteriore travalicamento di aree, tipico di tutta la produzione sanguinetiana, ma che in questo testo è esaltato al massimo.
  Riteniamo infatti di trovarci con "Dialogo" di fronte ad una meticolosa sintesi, come un raffinato cammeo, dei tratti maggiori di questo autore dall’intricato ed inscindibile amalgama di generi, ora prosa ora poesia, sempre dall’elementare corposo lessico, al coinvolgimento e alla pratica di altri ambiti artistici, dal teatro alla musica (è come una composizione tutto il testo), allo spettacolo. Con una costante: l’elezione della parola a luogo sostituitivo dell’azione, anche se poi deve constatarne miseramente l’impossibilità a svolgere questo ruolo, quando si ritrova in mano un "niente", che è l’ultima parola del componimento, ribadita anche altrove, in seguito (in un "glossa" del settembre del 1989) con la constatazione amareggiata: "e sopravvive un niente, di tanto tutto: (sopravvive questo)": il suo farsi scrittura. Per noi compiuta dolente scrittura.

  Montese, Aprile 1991
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ultimo aggiornamento: sabato 10 febbraio 2001 18.04.57
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