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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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ESTRATTO

Fenomenologia della guglielmità

Renato Barilli

Bollettario n°39


Approfitto ben volentieri dell’autorizzazione che mi dà Nadia Cavalera di non partecipare a questo giusto e dovuto omaggio alla figura di Guido Guglielmi, che ci ha lasciato all’improvviso nello scorso mese d’agosto, con un compassato e accademico contributo dedicato ai suoi studi di grande italianista, ma cercando di fare il punto su qualcosa di più intimo e diretto, relativo allo stato reale dei miei rapporti umani con lui. Tanto più che un rendiconto esistenziale del genere deve allargarsi subito ai suoi fratelli, che con lui e attorno a lui hanno costituito un episodio fondamentale della vita culturale non solo a Bologna, ma ancor prima a livello nazionale. Diciamo pure che chiunque ha vissuto intensamente a Bologna deve fare i conti con la “guglielmità”, dato che accanto a Guido animava le nostre vie, riempiva i nostri canali, mentali e affettivi, la presenza di Giuseppe. Per fortuna un terzo fratello, Angelo, è ancora con noi, pur trasferito da decenni a Roma, e il dialogo con lui può continuare a svolgersi secondo la felice e feconda modalità che lega tra loro i viventi, impegnati in una comune attività di scambi, di interrelazioni. Si aggiunga che questo capitolo delle “grandi famiglie”, ricche di presenze molteplici, ma tutte felicemente approdanti alla vita culturale, pare essere un aspetto frequente e determinante, in seno alla comunità bolognese, infatti si presenta subito all’attenzione il caso paritetico della famiglia Arcangeli, forte di figure indimenticabili, essenziali alla mia autobiografia umana e professionale, come quelle di Gaetano e di Francesco (Momi), mentre pure in questo caso c’è una forte e serena presenza che ancora calca la nostra ribalta terrena, Bianca. Il discorso si allarga e si complica ancor più se nel conto mettiamo la famiglia Prodi, che dal ristretto orticello delle lettere e arti procede verso i larghi spazi della politica; e ci sono anche i Telmon, i Cammelli, anche al loro al centro di intensi tramandi familiari, di inesauste Dinasties.
Tornando a questo mio dialogo con la guglielmità, pienamente aperto e fertile di continui scambi con Angelo, esso invece si è brutalmente interrotto, appunto, nei confronti di Guido, che mi sembra ancora di scorgere a una svolta di qualche viuzza bolognese, come l’ho visto non più tardi del luglio scorso; e certo nulla faceva sospettare, né a me né a lui, che quella fosse l’occasione estrema di incontro, ancora mi sembra naturale che la sua sagoma debba tornare ad apparirmi, a un prossimo angolo di strada. Eppure bisogna ammettere che nel suo caso il decorso dei rapporti è stato normale, la morte si è inserita con quella sua brutalità attimale, con quella recisione secca e inappellabile, che nessuno riesce a evitare, contro cui non c’è nulla da fare, nulla da scongiurare. Dico tutto questo perché invece nei confronti del più anziano Giuseppe sono accasciato dai rimorsi: egli si è spento nel corso di una lunga malattia, con tempi e appuntamenti prevedibili, e dunque, risulta intera, irrimediabile la mia responsabilità di non avergli reso visita, in quella fase estrema, di non aver avuto la generosità umana di superare una fase di offuscamento nei nostri rapporti reciproci. L’eccezionalità dell’ora avrebbe dovuto indurmi a riaprire in fretta un vecchio capitolo di frequentazioni caduto in colpevole disaffezione.
Ma intanto, ha senso parlare di “guglielmità”, a proposito di queste esistenze? Sì, perché al di là delle loro forti personalità rispettive, c’era, c’è tuttora un coefficiente comune a regolare la loro emersione di gruppo familiare: si tratta di una pur remota origine da una nobile terra meridionale, la Puglia, il che forse ha dato loro un indelebile imprinting verso verso abiti improntati a un controllato decoro, a una sobria civiltà di comportamento. Nessuno ha mai visto Giuseppe o Guido in un abbigliamento casual, dimesso, “in maniche di camicia”. Essi si sentivano tenuti, appunto, in ogni occasione di incontro, a presentarsi in modi dignitosi, quasi per rispetto al ruolo di intellettuali che esercitavano, pur in varie modalità, nella vita professionale. Da ciò, però, non traevano certo un connotato di conservazione sociale, al contrario, era in loro, c’è in tutti i Guglielmi, un’opzione di fondo per la protesta civilmente “impegnata”: ovvero, i Guglielmi erano, sono e saranno sempre di sinistra: l’iscriversi nei ranghi dell’opposizione al blocco delle forze conservatrici o addirittura reazionarie fu, è, sarà nel loro caso un’opzione di fondo, un po’ come quel bisogno istintivo di decoro espresso nell’abbigliamento. Naturalmente, è inutile, è superfluo stare a scandagliare in dettaglio quali fossero le rispettive sfumature del loro comune “essere di sinistra”, in tal caso dovrebbero emergere inevitabilmente delle distinzioni personali, d’altra parte è inutile volersi spingere troppo avanti su questa strada, dato che la loro scelta di fondo, la loro professione primaria era a favore della dignità del letterato, il che implica, allo stesso titolo, una pari dignità sul piano del costume, sul piano etico-politico, da cui appunto derivava il loro solidale “essere di sinistra”, e su quello del comportamento esterno, perfino del modo di vestire, comprensivo, a sua volta, di una certa austerità di vita: nessun Guglielmi è stato, sarà mai facilone, sboccato, triviale nelle battute di dialogo, nei comportamenti spiccioli: ci sarà sempre una distanza mantenuta rispetto a tutti gli appelli che possono venire dalla società consumista dei nostri giorni, sul piano del sesso, o della parlata dimessa, vernacolare, o dell’adesione a tic gestuali alla moda.
Naturalmente, ciò detto e riconosciuto, è poi subito inevitabile introdurre le differenze, tra l’uno e l’altro membro della famiglia, pur all’ombra di questa piattaforma di valori comunemente partecipati. Giuseppe curava abbastanza la sua toilette, fino a una punta di dandysmo, mentre in Guido la mise era affrontata con larghe punte di sprezzo, o di assenza, per non dire di trascuratezza: come di chi adempie a un copione per obbligo, ma senza metterci di suo una particolare attenzione e puntiglio: come certi avvocati che si buttano la toga sulle spalle giusto per mostrare che ce l’hanno, che aderiscono a un rito, ma risultano già ampiamente disposti a lasciarlo cadere in desuetudine. Infatti la trasandetezza, nelle giacche e cravatte e camicie di Guido era proverbiale, iscritta in qualche modo nel suo comportamento più profondo e significativo, accompagnandosi del resto a una generale tarscuratezza per tutte le mpanifestazioni corporali. Insomma, un atteggiamento opposto al narcisismo, di chi evita accuratamente di contemplarsi nello specchio, di rivolgere una qualche attenzione su di sé, dato che ogni cura va invece fuori, al mondo degli altri. Cominciamo qui a toccare quello che si potrebbe dire l’altruismo congenito e radicale di Guido, nel senso letterale della parola, di chi appunto si occupi soprattutto degli altri, e assai poco di se stesso.
Ho detto anche di una sostanziale gravitas, di abbigliamento, di conversazione, di atteggiamenti, cui la guglielmità obbliga tutti i suoi componenti. Tuttavia anche questo abito di fondo dava luogo a esiti molto diversi, tra Giuseppe e Guido. Infatti il primo, come è noto, pur da questa sua gravità contegnosa, non mancava mai di darsi a incursioni fulminee sui casi degli altri, pronto a battute incisive, capaci di trapassarne la corazza di perbenismo, di metterne a nudo la carne. Pur di precisare che anche in questo Guglielmi rispettava i limiti di un impegno culturale; non ricordo alcuna delle sue celebri battute che fosse tale da ferire, svilire la vittima nell’ambito del suo “privato”, nella sfera dell’intimità. Si trattava, insomma, di felici stoccate ma sempre rivolte a offendere, a ridicolizzare qualche pretenzioso valore culurale, pronta ad abbassare i toni che tendessero a farsi un po’ tropo enfatici e solenni, magari anche solo per caso, senza colpa dei protagonisti. Per esempio, il duo degli amici fiorentini, cui si deve l’importante capitolo della poesia visiva apertosi negli anni ’60, Pignotti e Miccini, veniva da lui degradato, ma con tono benevolo, in Mignotti e Piccini. Roland Barthes, grande star anche a Bologna, era accreditato del merito di venire a propinarci “La leçon de Roland”. Il Mulino, magna associazione e rivista e casa editrice, si vedeva profanato in Culino; e forse è di Giuseppe la battuta storica, riguardante la Chiesa cattolica e le sue sorti future, in cui si dice che essa “ha i secoli contati”, il che evidentemente è un modo di riconoscerle una grande capacità di sopravvivenza, e di rionizzare qualche incauto predicatore di sue inevitabili sconfitte.
Insomma, Giuseppe era coltivatore dei campi dello humor, del calembour, della satira, in modo così coerente e continuo che ciò valeva tanto nei suoi colloqui privati e quotidiani quanto nei momenti in cui si chiudeva a fare i conti con l’esercizio poetico, anch’esso nascente da civilissime invettive e anatemi e sberleffi, lanciati verso tutti gli obiettivi troppo saliti in superbia, che dunque meritavano di attirarsi questi strali rabbiosi e improvvisi. Nulla di simile in Guido, per una sua rinuncia totale alla violenza verso il prossimo; e ammettiamolo, esiste pur sempre una violenza anche a livello verbale, di cui il fratello Giuseppe era maestro, perfetto schermitore, pronto a ferire di punta, pur sempre nel quadro di una condotta magnanima e cavalleresca. Guido invece era disposto ad aprire un credito infinito a chiunque gli si presentasse; e dunque gli sarebbe sembrato sconveniente il far ricorso a qualsivoglia forma di aggressione verbale. Potrebbe valere al caso suo quello che si dice di S. Tommaso, di non aver minimamente dubitato che fosse nel vero un suo confratello che aveva detto di aver scorto un asino volante: tra l’improbabilità del fatto asserito e il credito che si doveva tributare a un correligionario, il Santo non esitava a far pendere la bilancia a favore di questo secondo aspetto. E anche Guido non avrebbe mai messo in dubbio che l’interlocutore fosse nel suo buon diritto, qualunque cosa affermasse: ogni asserzione era da accettare in linea di principio, salvo poi a verificarla, a sottoporla al vaglio di una ragione attenta, appuntita, anche se lenta nei suoi passaggi, ma inesorabile. Tutto questo ci può anche portare ad attribuire a Guido una sorta di “santità” laica, di chi non pretendeva affatto di coltivare un suo personale sogno di potenza, o di rivalsa, o di vittoria sull’antagonista, questo in conformità dell’altruismo di fondo di cui ho già parlato poco sopra. Che cosa ci impedisce di ascoltare attentamente gli altri, di far loro credito, se non appunto la presenza di un Ego ingombrante, narcisista? Ma se questo si è fatto piccolo piccolo, allora il candore, l’innocenza, l’apertura con cui possiamo dare ascolto alle ragioni degli altri sono enormi e intatte. In altre parole, Guido non pretendeva certo di avere in tasca le giuste chiavi e soluzioni dei vari problemi affrontati, e dunque si mostrava pronto ad accogliere, a mettere alla prova le soluzioni altrui, con piena disponibilità, senso fraterno di accoglienza: pronto comunque a deprimere, a sminuire le proprie tesi a vantaggio di quelle che gli altri potevano presentargli o opporgli. Con questo, non è che egli scendesse a un livello di agnosicismo, di eclettismo svagato e indeciso; al contrario, dobbiamo per questo aspetto recuperare l’”impegno” primario della guglielmità a favore di soluzioni che risultassero avanzate e di sinistra, nell’intero arco dei problemi in campo. E dunque, anche nel suo ambito professionale della letteratura egli era orientato a sostenere in linea di massima cause avanzate, sperimentali, illuminate, contro posizioni retrive e scontate. Ma senza la presunzione di essere portatore di un credo decisivo, e dunque, se si vuole, in lui la “militanza” era scarsa, o meglio, egli “militava” per un fronte ampio e unitario, a differenza, per esempio, del fratello Angelo, sempre pronto a rischiare, a puntare secco su un numero vincente, o a perdere l’intera posta. Questo spiega anche perché, in sostanza, Guido, a differenza di Angelo, non abbia “militato”, nel senso forte insito nella metafora guerresca, nell’ambito della neoavanguardia e del Gruppo 63, proprio perché si trattava di un fronte troppo univoco, a senso unico, di cui certo non sfuggivano a Guido le motivazioni cogenti, ma nel loro nome egli non si sentiva di introdurre fattori di rottura, all’interno di un fronte più ampio, che doveva essere portato avanti nel modo più largo ed equanime. Guido, in sostanza, apparteneva alla categoria evangelica degli “uomini di buona volontà”, sempre proteso a compiti di cucitura, di armonia, di pacificazione tra le varie posizioni, salvo che non risultasse perentoria la necessità di introdurre segni di divisione, di stabilire malgrado tutto una linea di frontiera tra le cause giuste e quelle errate, magari perfino con la capacità di qualche moto di ribellione, di indignazione, se i tutori delle cause ingiuste gli sembravano voler insistere nell’errore, malgrado le aperture di credito che egli aveva generosamente praticato nei loro confronti.
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ultimo aggiornamento: mercoledì 25 dicembre 2002 13.23.46
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