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LA CRITICA DEI GIOVANI



Il nitore della distanza. La saggistica di Giuseppe Pontiggia ne Il giardino delle Esperidi

di Nicola Bietolini

su Giuseppe Pontiggia


Nel tardo Novecento italiano la figura intellettuale di Pontiggia si distingue per un recupero mediato e ponderato della classicità, per una dimensione filologica costante, applicata con esiti singolari e illuminanti anche al panorama letterario moderno, e segnatamente in virtù di una misura ermeneutica prudente e rigorosa, perspicua nel rintracciare gli adeguati riferimenti storico-culturali di un dilemma interpretativo, quanto meritevole di encomio per la consapevolezza incrollabile di una perenne ineffabilità dell'essenza escatologica ultima di una risoluzione poetica, insidiata inesorabilmente dalla precarietà dell'avventura creativa rispetto alla monumentale immobilità dell'esistenza ordinaria.
Nella raccolta intitolata suggestivamente Il giardino delle Esperidi (Adelphi, Milano, 1984), primo esperimento di silloge organica di testi saggistici da parte di Pontiggia, spiccano immediatamente alcuni dei miti personali che costellano anche la sua produzione narrativa. In primo luogo troneggia, ammantata di una luce ieratica e vivificante, la riscoperta dell'antico (cfr. 20-28; 148-150; 221-225), recuperato nella sua intima lontananza arcana e sfuggente ed avvolto da un misterioso nitore che sprigiona prodigiose rivelazioni, additando un percorso speleologico negli anfratti più remoti della psiche, allusi dal giardino delle Esperidi, mitico, ignoto, ma pur sempre localizzabile in termini relazionali come entità cronotopica ancestrale ed indefinita, situata oltre lo spartiacque topografico presente e finito "dell'Oceano famoso". Pontiggia stila una peculiare graduatoria simbolica tra gli scrittori secondo il criterio discriminante della loro disposizione ad avventurarsi nei sentieri inesplorati della cultura , come D'Arrigo, creatore dell'eroe moderno che si invera non nell'identità ma nella metamorfosi (cfr. 208-220) e Manganelli, organizzatore poliedrico dell'anarchia linguistica (58-62). Si staglia, tuttavia, nell'immaginario archetipico saggistico e narrativo di Pontiggia il culto della chiarezza, intesa non come celebrazione solenne della banalità, ma come delucidazione certosina e minuziosa del mistero letterario e poetico, mediante il salutare esercizio della potenzialità enigmatica di un linguaggio chiaro, attivato paradigmaticamente ad ogni reiterazione dell'istanza ermeneutica dalla gamma più disparata di argomenti tematici, che coinvolgono vari italiani e stranieri moderni. Si segnalano gli approcci, equilibrati nella loro calibratura al dilemma interpretativo che intendono sondare, al perspicuo Daumal, rinnovatore del surrealismo in direzione classicista e metafisica (cfr. 13-19); al multiplo e insondabile Pessoa, la cui valenza poetica si qualifica come trasfinita, visto che esorbita dalla somma algebrica dei suoi eteronomi (cfr. 105-109); all'inquisitore della verità escatologica universale per antonomasia, Borges, fautore di un enciclopedismo onnivoro e contraddittorio, in cui deflagra una scintilla cosmica per altro rifratta in una serie di prismatiche sfaccettature rimontanti ad una serie indefinita di verità parcellizzate ed antitetiche (cfr. 271-276); al paradisiacoBaudealaire, che nella sua ricerca emblematica e ciclica del superamento dei limiti percettivi naturali verso un potenziamento decisivo e teofanico della emotività umana non deraglia mai verso aberrazioni estremistiche, ma si mantiene sempre entro i binari semantici ed etimologici del termine paradiso, spazio di perfezione chiuso e delimitato dalla caducità e dalla morte dell'essere umano (cfr. 90-92). Pontiggia, sotto lo specimen metaforico della narrazione odeporica, salpa verso l'ignoto, regalando al lettore perle di saggezza interpretativa, senza mai alterare le distanze cronologiche e culturali nei confronti dell'autore esaminato, ma anzi avvalendosi della propria perizia filologica, collaudata ed esente da deliri di onnipotenza o paludamenti cattedratici, per isolare l'etimo originale delle varie opere da tutti i fattori accidentali, sincronici e diacronici, che hanno contribuito ad incrostarle, a sedimentarle, a deformarne lo statuto poetico, alimentando colpevolmente una ricezione distorta e corrotta che ha reso evanescente l'intento creativo del remoto artefice. Si pensi alla immagine svisata di Sallustio, sul quale i giudizi della critica hanno assunto un carattere sperequato, ora indulgente rispetto al divario tra moralismo teorico e comportamento pubblico, ora eccessivamente malevolo nei confronti della sincerità sostanziale che anima il suo contorto percorso etico e lo induce a riporre ingenuamente le speranze in un chimerico mondo migliore nella ferrea dominazione cesarea (cfr. 29-36); o al sogno di Plutarco di riacquistare la propria identità attraverso l'immedesimazione critica nell'orizzonte umano e esistenziale dell'altro, secondo una concezione maieutica della biografia, che si inquadra in una corrente moralistica ed umanistica protesa ad individuare nel rispecchiamento dei sommi modelli etici un esercizio conoscitivo indispensabile per la maturazione del biografo stesso (93-98). Il punto di incontro tra modernità cangiante e antichità immutabile, per altro coesistenti senza soluzione di continuità estetica nell'alveo della curiositas umanistica di Pontiggia, è rappresentato dalla complessa ed ancipite nozione di attualità. Il classico rischia di essere fagocitato dalla standardizzazione unilaterale imposta dagli stereotipi reificatori moderni e di appiattirsi in grigie e banalizzanti formule di regesto consumistico, sollecitate da scontate ricorrenze ed anniversari, e avvalorate subdolamente da incartapecorite riesumazioni archeologiche del sapere antico, che si nutrono di ponderose puntualizzazioni formalistiche, ma inibiscono irrimediabilmente la propagazione di un approccio genuinamente ed autenticamente culturale ai testi, irrimediabilmente imbalsamati in un repertorio di nozioni linguistiche sterili e meramente erudite (cfr. 181-186). Questa riscoperta commerciale e accademica del classico disattende le valenze poetiche e didascaliche insite nelle fonti testuali fondanti della cultura occidentale, che invece vengono gratificate di una rievocazione intelligente e profonda nelle rivisitazioni poetiche intertestuali, pullulanti nella grande letteratura moderna (da Leopardi fino a Pessoa), in cui la estetica della degradazione, come intuisce mirabilmente Pontiggia, nasce dalla nostalgia di una fede (251), certamente più foriera di risultanze creative e gratificante sul piano squisitamente estetico della retorica e monocorde tradizione del nuovo, imperversante nelle appiattite e omologate scritture letterarie contemporanee (cfr. 250-259)..
Al di là e trasversalmente, o anche parallelamente, ad ogni altro nodo tematico, emerge come linea guida del libro l'interrogativo onnipresente in tutta la parabola artistica aperta ma coerente di Pontiggia: la componente ermeneutica-esegetica e comparatistico-filologica che focalizza e contiene entro la misura della comunicatività la ripresa vigile e non allarmistica dell'arrovellamento postmoderno intorno alla fantomatica ed inverificabile morte della letteratura. Pontiggia ripristina, con sconcertante linearità e traslucida ironia equidistante da ogni affatturazione ideologica, ma non asettica e distaccata, funzioni costanti, orientamenti tendenziali e limiti costituzionali ed ineludibili. La sua definizione dello statuto poetico concilia il polo metafisico e poetologico della scepsi, screziato di venature teoriche imagologiche relative alla fisiologia della visione(153) e alla evoluzione diacronica della ricezione critica e della intertestualità letteraria (cfr. 132-138; 179-180; 186-189; 203-207), impronosticabile, persino stocastico nei suoi esiti mutevoli e alterni, con l'antipodo epistemologico ed ideologico a carattere deterministico culminante nel progetto costruttivo ed interpretativo tradizionale .
La domanda: "Dove va la letteratura?" mi sembra che celi, sotto la sua innocuità apparente, una mescolanza abbastanza bizzarra di presupposti e illazioni, di certezze e di ipotesi. Il verbo "andare" insinua che la letteratura sia un essere che si muove, irrequieto e instabile, ansioso di lasciare il posto che occupa per trovarne altri.[…] È solo un aspetto della tendenza più generale ad attenuare il dominio delle ideologie.[…] Trasposto in letteratura, questo non significa, almeno mi auguro, eludere le ideologie, le poetiche, i progetti di interpretazione, ma mantenere una distanza critica dal retroterra dei testi.[…] Date queste premesse, mi sembra che la domanda: "Dove va la letteratura?" il "dove" rimanga fortunatamente senza risposta.[…] Anziché programmare testi che confermino quanto si pensa o si dice, chi scrive deve forse muovere da un altro principio: "Il testo ne sa più di me". O meglio, deve operare in modo che alla fine ne sappia più di lui, risulti più ricco e più strano di quanto potesse prevedere e programmare. E forse è l'aspetto più importante del lavoro letterario. .
Questa sentenza apodittica, enunciata nel saggio ruotante intorno all'ambiguo destino della letteratura, trova una corrispondenza biunivoca con la concezione simmetrica ed equipollente degli scacchi, passione cruciale ma delusa dell'infanzia, trasfigurata in metodologia conoscitiva di approccio alle problematiche esistenziali universali. La riflessione di Pontiggia gravita intorno all'imperativo etico prima che estetico della strategia degli avamposti, cioè del perfezionamento progressivo delle potenzialità latenti, basato sulla sperimentazione di tattiche evolutive e correlato all'incremento graduale del livello competitivo dell'antagonista, esaltato nella sua insostituibile valenza incentivante e nella sua condizione virtualmente paritetica e speculare rispetto al protagonista (cfr. 101-104).


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ultimo aggiornamento: domenica 14 settembre 2003 12.52.19
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