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versione telematica del quadrimestrale di scrittura e critica diretto da Edoardo Sanguineti e Nadia Cavalera
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RECENSIONE

Un patchwork superrealistico a Modena

Nadia Cavalera



Parlo di supperralismo allegorico da molto tempo ormai, quasi del tutto inascoltata, se non boicottata da certi bollori dell' albagia intellettuale imperante (io, così fortunosamente e fortunatamente anomala), ma... in verità non saprei come definire diversamente tanta arte che, nonostante nefasti stantii presagi, resiste intorno. Penso subito ad un Arman, a Kounellis, dei veri precursori di quel movimento che da oltre un decennio caldeggio, come l'unico significativo da perseguire oggi, a cavallo di questo nuovo millennio che si avvia. Penso anche a tanti giovani ancora in fieri artisticamente, con i loro reperti di brandelli di quotidianità offerti alla Storia, come sacrificio materiale che ne blocchi le previsioni terribili. E anche l'ultima Biennale di Venezia, una massa di realquotidiano dalle valenze demistificatorie di una realtà compromessa nei suoi fini ultimi, e nei sogni sovrapposti di democrazia effettiva (non virtuale come l'attuale!), era tutta improntata al Superrealismo allegorico, in un panorama internazionale e multimediale inequivocabile.
Come inequivocabile è la mia lettura in questo senso (mea culpa!) di Patchworks, la mostra a Modena, dal 4 al 17maggio, nello spazio espositivo del Quarantadue.
Sei gli artisti presenti, di cui tre affermati (Carlo Cremaschi, Mario Giovanardi, Carlo Sabbadini), gli altri emergenti (Annalisa Bondioli, Lorenzo Fonda, Andrea Sessa). Unica l'ansia di fondo: l'evanescenza in putrescenza del reale, da fermare in fretta finché si può, per quanto si può: la parabola dell'uomo nella sua fase discendente etica ed esistenziale. Fecondo l'attrito (da qui forse il titolo) di proposte: quadri ad olio, foto, installazioni, minisculture. Tutti regolarmente senza titolo.
Superrealistica questa mostra perché s'attarda solo su frangenti fratti di reale per evocarci allegoricamente il mancante, l'omesso, il rimosso e spingerci a riappropriarcene. E lo fa con forza, decisione, ferocia quasi.
Infatti non forme informi, le tele di Cremaschi, ma tratti netti, decisi, solo bloccati, strozzati nella loro compiutezza formale, dall'impossibilità di agire, di incidere sul reale per fermarne il dissolvimento che incalza. Un trittico, per me, i sui lavori con una sequenza logica, se non cronologica, netta. Un uomo, nella prima tela, integro nelle membra, dislocato alquanto lateralmente, sembra, nella presentazione bidimensionale, inchiodato nello sfondo, schiacciato da responsabilità inaccettabili, così che risultano segnali d'aiuto quegli elementi esterni, quasi delle bandierine, che sbalzano in fuori forando qua e là la tela, sfocata, immersa nel vuoto. Lo stesso che svuotato di qualsiasi senso sembra dominare, in un'altra tela, un altro uomo, dalla fattezze di ultimo Don Chisciotte dall'amaro sorriso, senza più illusioni. Di lui non rimane che il volto, sostenuto da una gorgiera, forse meglio da un adornato giogo (manovrabili e manovrati dall'egoismo gli uomini sono condotti alla fine!); e il resto del corpo è una lunga tunica di contenzione, appena accennata, che ingloba e blocca i piedi. Lascia solo intravedere le mani, ridotte quasi a moncherini: qualche scheletrica falange a sinistra; un uncino, si direbbe, a destra . Poi nulla. Solo impotenza operativa. Che trionfa nella terza tela, dominata da tratti di isterico pennello, singulti di grigio sul bianco di una realtà che si cerca di sfregiare, in una chiara palingenetica tensione.
Che in Sabbadini si carica di rimandi etnico-infantili, nella sfilza di omini neri che escono di scena, sempre verso destra, nelle sue formelle rosse, di tela, o quando, quali pupi bidimensionali di grezzo legno, si lasciano infilzare in lunga regressione genetica dallo spiedo spietato della Storia mancata. Si poteva fare meglio in concorde crescita comune, ma così non è stato. L'irrazionalismo trionfa in ogni anfratto della società e la coscienza di questo si concretizza materialmente in un ligneo comodino dal cassetto della memoria vuoto. E vuoto è sempre un nido sopra poggiato perché custodito da un pupo di legno, rigido cui mancano persino i fili per muoversi.
Evanescenza dicevamo, impotenza. Pure nei quadri di Giovanardi, dai tratti forti di colore, lungo le sfumature del grigio fino all'antracite, nella creazione di volute geometriche forzate, come mozzate, e la materia si riversa in lunghe spatolate, quasi un catalogo di possibilità in attesa d'una significativa ripresa. E' lo stallo dell'azione artistica, ma storica soprattutto.
Richiamata dai tratti fumettistici delle tele di Fonda, dalle foto di Gardaland della Bondioli : è tutto falso, una caricatura, un giuoco...sembrano dire. Radiografata fino all'osso (sic!) nelle installazioni di Sessa che propone lastre umane da una pila di schermi accesi. I giochi sono fatti, tutto è concluso, ne è il monito. Non c'è riscatto. Senonché la speranza affiora tenace nella proposta più insolita: il box di un infante protegge, quasi culla, nel monitor illuminato di un computer (mezzo di comunicazione oggi per eccellenza ma fonte sicura domani anche delle peggiori mistificazioni e manipolazioni) la radiografia di un collo su cui poggia ancora, (se ne intravede la base), una testa. E allora...il nuovo canto della ginestra può ricominciare.


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ultimo aggiornamento: giovedì 9 maggio 2002 23.40.28
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